Tra i villaggi togolesi

Quando si lavora nei villaggi capita di frequente di assistere all’arrivo di frotte numerose di famiglie e capi villaggio, anche dai villaggi più prossimi.

Le riunioni che la Croce Rossa organizza e realizza tra le comunità locali attira sempre un gran numero di passanti e curiosi che sostano e ascoltano cosa hanno da dire gli “animatori di comunità”.

Gli adulti seduti in quelli che vengono chiamati “focus group” (o réunions communautaires, alla francese) e i bambini piccoli o davvero piccolissimi, lasciati liberi di ascoltare, o di spostarsi per giocare in giro con altri bambini e o con gli animali. Tutti lasciati insomma a “pascolare” in libertà. Nessun obbligo di attenzione.

La realtà del villaggio è semplice e dura, ti mostra con crudezza le mancanze e le necessità più evidenti. Eppure nessuno sembra farci caso. Solo io mi accorgo di questo. Sono un essere malpensante? Sono troppo abituata ad immaginarmi con i miei vestiti, le mie scarpe, le cose che mangio, le comodità di cui mi circondo, da non riuscire ad immaginarmi diversamente? Sono troppo “occidentale”?

Eppure se loro non sembrano farci caso, io sì. E non riesco a staccare gli occhi senza riflettere, mentre nel cervello penso quello che sto scrivendo e ho solo voglia di metterlo per iscritto non appena arrivo in camera mia, in hotel.

Già, perché io ho l’hotel. La mia organizzazione paga per me l’hotel e paga da mangiare, come per tutti gli operatori sul campo. So già cosa stai pensando. Lo trovi fuori luogo? Radical-chic-finto-buonista? Ad ogni modo, me ne frego del giudizio. Siamo qui per lavorare e lo facciamo con poco (nel mio caso, pochissimo).

Nel frattempo osservo e mi godo lo spettacolo della commedia umana.

Oggi alla formazione dei gruppi locali c’è chi è arrivato in orario. Chi in ritardo.
Il tempo in Africa è dilatato e la casistica è esaustiva:
Chi è arrivato addosso alla propria mamma,
Chi si è portato il fratellino sulle spalle.
Chi, un cerchione di bicicletta vecchio e arrugginito, facendolo ruotare con un bastoncino.
Chi, un coltellaccio per sbucciarsi la frutta a 7 anni… (Un momento! Ora che ci penso: chi di noi lascerebbe un pugnale ad un bambino di 7 anni? Chi tra di noi sbuccia già la frutta a 7 anni??)

Chi corre inseguendo un amico e chi si è fatto seguire da una gallina.
Chi è arrivato scalzo.
Quasi tutti nudi o mezzi nudi (e diamine, mi spoglierei anch’io se potessi… sapessi il caldo con questa divisa di cotone duro e poliestere!)

Molti dei bambini arrivati che ho osservato, presentano una qualche forma di anomalia fisica, visiva o di deambulazione.
Chi zoppica un po’, chi ha una grave malformazione alle gambe, chi ha strane macchie sulla pelle, chi mostra i segni di varie escoriazioni, molti di loro hanno un’ernia ombelicale, che prima d’ora non sapevo nemmeno come fosse fatta.

Tutti i bambini però sono incuriositi e vengono a cercare i loro adulti già seduti da un pezzo, e si mettono lì accanto, ma solo per pochi minuti: giusto il tempo di chiedere alla loro mamma di poter sgranocchiare qualcosa, o solo per dare una carezza al loro fratellino/sorellina più piccol* e attaccat* quasi sempre al seno della mamma.

A parlarci con loro alla fine ci finisco sempre, come posso, anche solo per dire le solite 2 – 3 parole di Ewé che ho imparato per interagire, e poi provare a giocarci insieme. Perché devo sempre provare ad imparare la lingua del posto, non importa quanto dura e faticosa possa essere.

L’interazione è vitale, è fraterna e solidale.

Sono mesi che sono qui. Sola e senza compagnia affettiva. Eppure queste immagini che ho davanti agli occhi non mi stancheranno mai davvero.

Ma ho la testa e il cuore un po’ in affanno e pieni di domande. Ho bisogno di azzittire entrambi. In qualche modo dovrò trovare la mia pace, prima o poi.