Nei tuoi panni. Nella tua pelle

Si comincia così non appena varco la soglia di casa e si prosegue fino al mio rientro. Tutti i santi giorni.

Sono in Africa in missione come volontaria da poche settimane e non è la prima volta. Ma ogni volta che sono in Africa è come se fosse una prima volta di emozioni, sebbene io conosca già cosa mi aspetti.

Amo camminare e tanto! Questo sabato mattina – come ogni sabato alla scoperta di un angolo nuovo di questa città che mi accoglie da quasi un mese – ho percorso una ventina di chilometri senza affanno.

Succede sempre la stessa cosa: suoni di clacson di moto, di auto, di taxi, di venditori ambulanti, fischi e richiami più o meno molesti. Non passo mai inosservata. Cerco di non curarmene, ma è dura dover convivere con gli sguardi perennemente addosso.

Il venditore cerca di vendermi sempre qualcosa.
Il taxi mi vuol scortare per forza da qualche parte.
La moto-taxi si ferma per offrirmi un passaggio.
I passanti mi guardano da cima a fondo.
Sono sotto gli occhi di tutti e procedo, cerco di farci l’abitudine mentre faccio il gesto del No, con gentilezza. Anzi, indosso i miei soliti auricolari e mi distraggo con il beat in testa ascoltando “All eyes on me!” di Tupac Shakur!

“Bonjour ma belle! Ça va?”
“Alors?” “Bonjour La blanche!”
(neanche fossi una weiss beer…)

Non ho fatto nulla di speciale oggi, non ho lavorato, eppure al mercato mi sono “guadagnata” un sacco di passaggi, indumenti, oggetti per la casa, favori di ogni tipo, e proposte immediate di matrimonio.

Non ho meritato nulla oggi. Non ho nemmeno aperto bocca da stamattina, da quando sono uscita da casa. Ho solo camminato sola, per ore in mezzo alla gente e mi sono confusa nella folla, tra gli odori, i sapori, i colori del mercato pubblico di Lomé.

“Bonjour Jovo!” (= bianca, in Ewé, la lingua locale della regione a sud del Togo).
Che sa tanto di jogurt; saluto e passo ancora oltre, e a pensarci bene con il caldo torrido e sotto il sol africano, ci starebbe anche uno jogurt fresco e mi viene sempre un certo languore tutte le volte che me lo sento dire.

Cosa avrò mai di così speciale (o di terrificante) da essere osservata, adulata, squadrata, scansionata come un documento da digitalizzare? Chi lo sa.

So solo che passo il tempo ormai a sognare ad occhi aperti quel giorno in cui smetteremo di dircelo gli uni con gli altri. E di farlo notare.
Il tuo colore, il mio colore. Che sia per offendere, o per avvicinare, per lusingare, promettere o per una ricerca d’attenzione. Quel tuo colore. Questo mio colore.

Oppure sogno un enorme cataclisma ambientale universale e una rinascita del genere umano in …farfalle! Senza un colore preciso, ma con tanti meravigliosi colori da mostrare quando in volo ci si stacca dal proprio bozzolo e si comincia finalmente a viaggiare!

E viaggiando così tanto, noi come le farfalle, ci mescoleremo ad altre farfalle con altri colori ancora più sfavillanti e non avremo più il bisogno di confrontarci, ma cominceremo ad intuire di essere in realtà tutti spogli e meticci alla stessa maniera, e a percepire le sfumature dei colori delle nostre ali, solo per osservarne la bellezza. Allora e solo allora, potremo dirci liberi da pregiudizi e da ignoranza.

Sarebbe tutto molto più semplice se ognuno di noi imparasse a viaggiare sin da subito e continuasse a farlo per incontrare ogni volta l’altro e vestirne la sua pelle; indossarne i panni.
Anche se solo per poche ore di un sabato mattina, al mercato pubblico di Lomé.

 

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