Il Jobs Act e le ONG, cosa cambia?

di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  20 aprile 2015

 

E’ da poco entrato in vigore il Jobs Act, ultimo intervento legislativo in materia di diritto del lavoro degli ultimi anni. Obiettivo prefissato quello di creare più flessibilità, non solo in entrata, ma anche in uscita. Senza focalizzarci in questa sede sulla flessibilità in uscita, per la quale sono tuttora marcate le critiche nei confronti di alcuni provvedimenti di legge che renderebbero più facile il licenziamento, l’obiettivo di questo elaborato parallelamente a quello dichiarato nei recentissimi interventi in materia di Politiche del lavoro, è stato quello di ridurre l’area dei contratti atipici, o precari e ricondurre la maggior parte dei rapporti di lavoro all’interno della subordinazione a tempo indeterminato. Le novità introdotte dall’ultima legge n.183 del 10.12.2014, più nota come Jobs Act, vertono principalmente verso questi tipi di contratti cd. “parasubordinati a termine” che rappresentano, in buona sostanza, la formula contrattuale più utilizzata nel Terzo Settore e nel mondo delle ONG, ovvero quegli enti che operano prioritariamente per il raggiungimento di scopi sociali e umanitari.

Sebbene il Legislatore non faccia esplicita menzione di provvedimenti esclusivi per il Terzo Settore, equiparando tutti i settori e tutte le professionalità e rimandando ai singoli contratti collettivi (CCNL) previsti dalla tipologia contrattuale di ciascun rapporto di lavoro, ci si chiede come si rapporterà il nuovo Jobs Act con il Terzo Settore e con le ONG.

Come detto, la tipologia contrattuale dei contratti a progetto (Co.Co.Pro.) è largamente utilizzata nel Terzo Settore e in particolare dalle Organizzazioni Non Governative in virtù dei chiari elementi di specificità che connotano la natura stessa delle attività del collaboratore di ONG. Elementi che si declinano in progetti specifici, finalizzati al raggiungimento di un risultato, come: l’assoluta determinatezza dell’oggetto dell’attività inteso anche come parte integrante del più grande obiettivo generale perseguito dall’organizzazione; l’individuazione di un arco temporale circoscritto per l’espletamento dell’attività progettuale di rilevante responsabilità tecnica gestionale ed organizzativa; i margini di autonomia anche di tipo operativo da parte del collaboratore e la possibilità di un’obiettiva verifica del raggiungimento dei risultati attesi; la rilevante subordinazione dei progetti a forme di finanziamento pubblico ben definite nel tempo e nell’ambito di intervento.

Negli ultimi anni presso le ONG si è accentuata l’esigenza di personale con contratti a termine. Questo non solo per le chiare difficoltà finanziarie della maggior parte delle Organizzazioni (stipulare contratti a scadenza significa poter modulare i costi del personale a seconda dei vari contributi finanziari disponibili di anno in anno), ma anche per motivi di natura oggettiva che implicano contratti a durata limitata: esistono infatti delle situazioni di contingenza legate in alcuni casi ad interventi di emergenza o di monitoraggio elettorale, per esempio.

Normalmente le figure impegnate per conto delle ONG che prestano la propria professionalità direttamente in loco, quindi all’estero (come il volontario internazionale, il cd. “volontario senior”, il cooperante internazionale e l’esperto in Cooperazione e Sviluppo) sono state inquadrate attraverso contratti di lavoro stipulati privatamente dalle singole Organizzazioni. Le tipologie contrattuali seguono, nella gran parte dei casi, le indicazioni contenute nella ex Legge 49/87, ovvero la legge italiana che regola la Cooperazione Internazionale, e dall’Accordo Quadro tra le principali realtà italiane del Terzo Settore e le sigle sindacali maggiormente rappresentative. La tipologia contrattuale a progetto che ne deriva ha una durata variabile che può essere di breve, medio o lungo termine. Ciò implica per il professionista che voglia inserirsi nel mondo delle ONG una particolare adattabilità ad attività discontinue con persone ed ambienti differenti e richiede di trasformare la precarietà in virtù. Si tratta, il più delle volte, di una modalità volta a verificare sul campo l’effettiva predisposizione degli operatori a svolgere compiti e ad affrontare responsabilità che richiedono la massima flessibilità, testandone l’equilibrio e lo spirito d’iniziativa nel fare bene ciò che si sta facendo.

Dunque, quali sono le novità per le prestazioni lavorative all’estero da parte di cooperanti e operatori che collaborano con rapporti di lavoro esclusivamente legati al contratto a progetto? La risposta è la seguente: se i relativi rapporti sono regolati dalla legge italiana, allora si applicherà la stessa disciplina prevista dal nuovo Jobs Act.

In secondo luogo, esisteranno ancora i vecchi contratti a progetto? Quali problematiche potrebbero emergere relativamente ai contratti a progetto in corso e quali nuovi contratti saranno contemplati nella nuova Legge?

In questo dato quadro normativo, economico e sociale che chiede maggiore flessibilità (quindi non solo in entrata, ma anche in uscita) diventa fondamentale che si sviluppino strumenti efficaci che accompagnino i lavoratori nei momenti di passaggio da un impiego all’altro (politiche passive ed attive del lavoro, formazione permanente). Tutti i lavoratori e gli operatori dovranno confrontarsi con nuovi paradigmi, connotati da una maggiore dinamicità, soprattutto gli operatori del Terzo Settore che, come già espresso, sono portati a modificare nel corso della loro vita lavorativa e, per diverse volte, il rapporto d’impiego. Si passa da un lavoro all’altro, con degli intervalli temporali più o meno lunghi.

Il Jobs Act ha delegato il Governo ad emanare, nei successivi 6 mesi, una serie di decreti legislativi in materia di ammortizzatori sociali e di lavoro, stabilendo i principi e le linee guide della attività normativa delegata. Ad oggi, il Governo ha adottato solo due decreti legislativi, tra cui il decreto n.23 del 4 marzo 2015 recante “disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno dei due decreti legislativi ha riformato o abrogato il contratto a progetto, che continua a trovare fonte normativa negli artt. 61 e succ. del D.Lgs 276/2003, così come modificato dalla Legge 92/12.

Ciò vuol dire che, ad oggi, è ancora possibile stipulare nuovi contratti a progetto o rinnovare quelli esistenti. Con delle cautele.

Solo nel momento in cui il testo relativo al decreto attuativo sul riordino delle tipologie contrattuali (attualmente al vaglio parlamentare) entrerà in vigore, non sarà più possibile stipulare o rinnovare contratti di collaborazione a progetto. Sarà possibile, invece, stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.Co.Co.), o contratti d’opera (lavoro autonomo). Oppure si potrà trasformare le collaborazioni in contratti a tempo indeterminato e a tutele crescenti, sfruttando così tutti gli incentivi messi a disposizione, secondo quanto prevede la nuova Legge di Stabilità 2015 che anticipa la volontà riformatrice del Legislatore e che trova compimento nella promulgazione del Jobs Act.

I rapporti di collaborazione a progetto ancora in essere all’entrata in vigore del decreto continueranno ad essere validi e andranno a naturale scadenza. Interpretazioni autentiche di fonte governativa affermano che le forme di collaborazione co.co.co non sono soppresse purchè si rispettino i requisiti di cui al c. 1 art. 47 (in sintesi siano realmente autonomi nella gestione della prestazione) e, sia pur con qualche rischio di futuri contenziosi, possono essere utilizzati, invece dei contratti a progetto anche dopo l’approvazione del decreto.

Entrando più nello specifico del settore non profit e delle ONG in particolare abbiamo cercato di capire cosa sta cambiando e come le organizzazioni stanno reagendo all’entrata in vigore del Jobs Act. Per questo abbiamo sentito l’ufficio risorse umane di due importanti ONG italiane tra quelle che sostengono Info-Cooperazione. Si tratta di Cesvi e WeWord che operando nella Cooperazione gestiscono personale sia in Italia che all’estero.

Non mancano le preoccupazioni per lo scenario che si sta delineando – ci dicono i colleghi di WeWorld: “La futura eliminazione della tipologia dei contratti a progetto colpisce il mondo delle ONG abbastanza duramente, soprattutto pensando che non è stata fatta una riflessione né sono stati dati gli strumenti necessari per andare a colmare il vuoto che l’assenza dei contratti a progetto lascerà nella nostra tipologia di organizzazione. Non ci riferiamo alle figure stabili di sede, che in WeWorld sono tutte assunte a tempo indeterminato, ci riferiamo invece a quei ruoli che sono necessariamente legati allo sviluppo di programmi o di progetti (Italia ed Estero)”.

Da Cesvi ci fanno sapere che, non essendosi ancora chiarito lo sviluppo che i contratti a progetto subiranno in futuro e non essendo ancora stato approvato definitivamente il decreto legge relativo ai Co.Co.Pro, non è stato introdotto alcun cambiamento nella gestione dei contratti per gli espatriati(che continuano ad avere un contratto a progetto). Sulla sede il discorso è diverso, al Cesvi stanno per ultimare un processo iniziato un paio di anni fa (quindi non legato al Jobs Act), e che ha avuto come obiettivo quello di stabilizzare tutti i contratti a progetto in essere.

Resta però la necessità di trovare uno spazio per definire le esigenze specifiche delle ONG per evitare che il Jobs Act possa avere effetti devastanti sulle organizzazioni. Per questo le associazioni chiedono che si apra al più presto un confronto nelle sedi competenti come avvenuto in passato per la formulazione dell’attuale Accordo Quadro che regolamenta i contratti a progetto nel nostro settore.

Dall’AOI rassicurano rispetto a questo percorso che tutti concordano rappresenti la soluzione effettiva e necessaria per tutelare le risorse umane del settore. Solo a tali accordi infatti è demandata la possibilità di derogare sia sui criteri per stipulare contratti co.co.co, sia per stipulare contratti a tempo determinato senza i limiti imposti dalle norme attuali.

In questo senso il percorso per stipulare accordi è facilitato e accelerato dal tavolo (Ministero del Lavoro/Sindacati/ONG) previsto dalla nuova legge sulla cooperazione relativa ai contratti all’estero (art.28), che potrebbe diventare anche l’occasione per rivedere e attualizzare il contratto generale stipulato nel 2013 applicabile anche al personale operante in Italia. I tempi rischiano comunque di non essere brevi perché la convocazione del tavolo potrebbe avvenire solo a completamento del quadro normativo attuale.

Il Blending cambierà davvero il finanziamento dello sviluppo?

di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  12 novembre 2015

 

Fernando Frutuoso De Melo, direttore generale DEVCO della Commissione europea, ha sostenuto di recente che l’esperienza di fusione di fondi istituzionali pubblici e privati (il cosiddetto blending), come nuova politica dei finanziamenti per lo sviluppo, ha dimostrato ottimi risultati. De Melo, ospite a un evento organizzato dall’European Policy Centre (EPC), ha spiegato che con circa 2 miliardi di euro di fondi, la Commissione ha sfruttato poco più di 19 miliardi di euro dalle banche di investimento per lo sviluppo locale ed europeo, che hanno innescato a loro volta un investimento di circa 42 miliardi di euro. “Eccellente! Abbiamo avuto un effetto moltiplicatore di ben 20 volte. Vogliamo fare di più in questa direzione!” ha riferito.

Sono otto a oggi le “blending facilities” gestite dalla Commissione per sostenere gli investimenti del settore pubblico e privato e, secondo De Melo, hanno già ricevuto finora 2,2 miliardi di euro di sovvenzioni provenienti dal bilancio dell’Unione europea, dal Fondo Europeo di sviluppo (EDF) e dagli Stati membri e vengono combinati con prestiti di altre istituzioni finanziarie. Queste facilities coprono tutte le regioni in cui l’UE ha progetti in ambito di Cooperazione allo sviluppo e si riferiscono a specifiche strategie e partenariati regionali e nazionali con l’obiettivo di sostenere la politica dell’UE nelle aree e nei Paesi in questione. “Ci sarà bisogno di un periodo più lungo per effettuare una valutazione definitiva sull’efficacia della finanza mista e del nuovo paradigma”, ha aggiunto De Melo.

Nel frattempo la comunità internazionale e l’Unione europea in particolare, pongono sempre maggiore enfasi sulle opportunità offerte dal blending. La Commissione europea incoraggia questi sistemi di finanziamento almeno dal 2007, in realtà è solo dal 2012 che vi è stato un cambiamento sostanziale, con la creazione di una nuova piattaforma che ha proprio l’obiettivo di aumentare lo sviluppo di queste risorse miste, la “EU platform for Blending in external cooperation”. In molti a Bruxelles considerano il blending e gli altri meccanismi simili come parte di un cambiamento epocale nella politica dei finanziamenti dello sviluppo. Una svolta che sposterebbe l’attenzione dagli Aiuti pubblici allo sviluppo (APS) al settore privato e che tenderebbe allo stesso tempo a rimpiazzarli gradualmente.

Non tutti però sono così entusiasti dei meccanismi di blending.

La Rete Europea sul Debito e lo Sviluppo (Eurodad), una rete di 46 organizzazioni non governative (ONG) provenienti da 20 Paesi europei che lavorano su questioni relative al debito internazionale, ai finanziamenti allo sviluppo e alla riduzione della povertà, ha recentemente pubblicato un rapporto intitolato “Una fusione pericolosa?” che solleva molte domande relative a questo sistema di finanziamento innovativo. Tra queste, il timore che il blending possa sprecare le risorse già scarse degli APS, la mancata trasparenza dei suoi meccanismi di gestione e la mancanza di prove che accertino l’efficacia che il blending possa soddisfare realmente gli obiettivi di sviluppo prefissati; un punto, quest’ultimo, sollevato anche dalla Corte dei Conti dell’Unione europea.

Non solo. Altre riflessioni si sono poste in netto contrasto con le recenti dichiarazioni della Commissione europea e del funzionario De Melo. Lo stesso Parlamento europeo avrebbe sollecitato una maggioretrasparenza e “accountability” dei meccanismi di fusione dei fondi per garantire un impatto sociale reale sullo sviluppo sostenibile.

Gli fa eco l’UNCTAD, Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, che, poche settimane fa ha pubblicato un Report in cui si evince una posizione piuttosto scettica sul sistema dei finanziamenti innovativi e sul blending. “Oggi i dibattiti sembrano ignorare la lunga storia della finanza mista, evitando di porre specifiche domande sul “Per chi, come e per quale scopo?”. Il rapporto afferma anche che “I mercati finanziari internazionali privati tendono a non investire in progetti chiave nei Paesi in via di sviluppo” citando “conseguenze pericolose per la stabilità finanziaria” provocati dai cosiddetti “hedge fund”, i fondi speculativi.

Sugli Aiuti pubblici allo sviluppo, la relazione afferma che, contrariamente a quanto sostenuto da De Melo, questi fondi continuano a svolgere un ruolo fondamentale nella mobilitazione delle risorse, in particolare di quelle a favore dei Paesi più poveri e vulnerabili, ma rileva anche che nonostante l’aumento negli ultimi dieci anni, la tendenza degli APS non sia stata affatto incoraggiante, attestandosi in media allo 0,29% del PIL del 2014, ben al di sotto del livello desiderato dello 0,7%.
Per Alex Izurieta, economista della divisione sulla Globalizzazione e Strategie di Sviluppo dell’UNCTAD, i partenariato pubblico – privato possono contribuire in una certa misura al finanziamento di progetti di sviluppo, ma di fatto non generano maggiori finanziamenti.

In Italia infine, un’altra posizione dubbiosa verso i nuovi finanziamenti innovativi, arriva dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica. Secondo il presidente Andrea Baranes i rischi di questo nuovo approccio sono abbastanza evidenti, “la Cooperazione potrebbe trasformarsi in uno strumento dipromozione commerciale per le nostre imprese, in cui un privato con sempre maggiore potere economico e decisionale, riesce a indirizzare i fondi (sia quelli propri sia quelli pubblici) verso Paesi e progetti nei quali vede un ritorno economico, mentre magari proprio le nazioni più povere o i progetti più necessari vengono accantonati”.

Corporativismo, paternalismo e ostruzionismo: cosa i giornalisti pensano delle ONG

Traduzione di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  23 marzo 2015
Fonte The Guardian

 

Sono questi i tre peccati capitali che i media inglesi attribuirebbero alle ONG secondo un’inchiesta pubblicata recentemente dal Guardian che registra tra i giornalisti una crescente tendenza a criticare il mondo degli aiuti umanitari e delle ONG. Un rapporto, quello tra media e ONG, indispensabile e spesso esclusivo che mostra oggi alcuni limiti nella capacità di raccontare le realtà dello sviluppo. Il rapporto pubblicato da IBT esorta i due settori a collaborare al meglio in futuro.

Sulla base di una serie di interviste fatte ad autorevoli esponenti del giornalismo anglosassone, l’inchiesta “Il settore degli Aiuti Umanitari – Cosa ne pensano davvero i giornalisti”, pubblicata dall’International Broadcasting Trust (IBT), dipingerebbe un quadro piuttosto desolante del rapporto tra agenzie umanitarie e media.

I giornalisti della BBC, del Mail, del The Sunday Times e altri organi di stampa accusano le ONG di trascurare le persone coinvolte in prima linea nelle aree di conflitto, per concentrarsi di più sui campi profughi – relativamente sicuri – così come di esagerare sulla portata delle catastrofi per attirare a sé donazioni. La relazione fa riferimento anche alle recenti notizie (riportate dalla stampa inglese) di evasione fiscale, attività di lobbying e faziosità politica delle ONG, sottolineando proprio come i giornalisti stiano sempre più trovando il sostegno dell’opinione pubblica nel mettere in discussione le attività delle ONG.

Ian Birrell, corrispondente estero freelance che ha lavorato per il Daily Mail, The Guardian e altri ancora, è descritto nel report come “colui che si è distinto tra i più severi e costanti critici delle ONG e dell’intero mondo degli aiuti umanitari, in generale”. Dice che le ONG contribuiscono a creare un’immagine “disonesta e fraudolenta” dell’Africa, quale luogo d’inimmaginabile povertà e avversità. Ha anche fatto notare che quando riporta una critica alle ONG nei suoi articoli, raccoglie commenti sempre “molto favorevoli … e che, se una volta il giudizio negativo poteva provenire da persone che non sopportavano aiutare gli stranieri, ora lo stesso disagio proviene da persone che invece avrebbero a cuore la causa, ma hanno realizzato anche i difetti di un modello semplicistico e vecchio stile“.

Tim Miller, ex caposervizio agli esteri di Sky News, chiede un maggior controllo delle agenzie umanitarie che utilizzano lo strumento delle donazioni. “Il punto più basso svolto dalle attività delle ONG è stato con lo Tsunami del 2005, quando era chiaro a tutti che era stato raccolto tanto denaro da destinare in aiuti umanitari, ma nessuno in realtà sapeva dove stesse andando” afferma. In un ambiente mediatico dominato dallo scandalo delle spese generali di gestione, dalla crisi finanziaria e dalle accuse di malcostume attribuite a una serie di istituzioni pubbliche, gli autori dell’inchiesta sostengono che, da parte dei media, c’è una nuova tendenza a contrastare anche queste politiche umanitarie, da sempre considerate come delle “vacche sacre”.

Nevine Mabro, capo della politica estera di Channel 4 News, è stata uno dei tanti intervistati ad affermare il fatto che ora i media sono più disposti a controllare il lavoro delle ONG. “In passato c’era forse la sensazione che queste fossero intoccabili perché quello che facevano era considerato buono, quindi non serviva inquisirle come si fa per una grande società capitalistica” dice. “Tuttavia non ricordo quando e perché le cose sono cambiate. Se qualcuno venisse ora a parlarmi di corruzione [nel settore degli aiuti umanitari], mi accerterei sicuramente di ciò”. Tra le proposte per migliorare, i giornalisti chiedono alle ONG di essere più trasparenti nel loro rapporto con la stampa, e di concentrarsi maggiormente sull’emergenza, piuttosto che sull’aiuto allo sviluppo.

Il Responsabile dei media di Christian Aid, ed ex giornalista del The Sunday Times, Andrew Hogg ammette che i rapporti tra giornalisti e operatori umanitari possono essere inutilmente tesi: “Ho parlato con i giornalisti che ci considerano un nemico – come se le agenzie umanitarie stessero cercando di gettare fumo nei loro occhi; non è proprio così. La trasparenza e la responsabilità sono la chiave per poter ben operare”. Hogg ammette che il sospetto vada in realtà in entrambe le direzioni. Dice: “Nel settore degli aiuti, ci sono sicuramente delle persone che disdegnano i giornalisti, perché questi urlano al sensazionalismo o dimostrano superficialità”.

Il rapporto tra media e ONG è di simbiosi – entrambi hanno bisogno gli uni degli altri per fare al meglio il proprio lavoro nei Paesi in via di sviluppo.
“La verità è che abbiamo bisogno gli uni degli altri” sostiene Hogg. “Il rapporto può a volte essere non semplice, ma crea vantaggi reciproci. I giornalisti vogliono accedere alle storie e ai resoconti fatti in prima persona, forniti dalle agenzie umanitarie, mentre queste vogliono attirare l’attenzione su questioni d’interesse, come ad esempio promuovere il loro lavoro”.

IBT esiste per far sì che lo sviluppo globale possa avere il supporto dei media. Il direttore Mark Galloway, ex giornalista ITN, dice che per andare avanti da una situazione di stallo e di sfiducia reciproca, le ONG devono essere molto più proattive. “Dobbiamo avere una migliore consapevolezza di ciò che i giornalisti pensano degli aiuti umanitari e del ruolo dei media, in modo da essere in grado di rispondere alle critiche, quando criticati, senza porsi invece sulla difensiva” dice. Come la relazione sottolinea: “A volte i media riflettono solo ciò che alcuni nel settore degli aiuti umanitari pensano”.

Guida agli strumenti di finanziamento dell’UE (1/3) Tema: Il Programma Organizzazioni della Società Civile e Autorità Locali

Traduzione di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  10 settembre 2015
Fonte CONCORD Europe

Guida agli strumenti di finanziamento dell’UE 2014-2020 (2/3) Tema: Il Programma Beni Pubblici e Sfide Globali

Traduzione di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  17 settembre 2015
Fonte CONCORD Europe

Guida agli strumenti di finanziamento dell’UE 2014-2020 (3/3) Tema: Lo Strumento per la Democrazia e i Diritti Umani

Traduzione di Vincenza Lofino | edito da: Info-Cooperazione –  28 settembre 2015
Fonte CONCORD Europe

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