Globalismo e anti-globalismo (book review)
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 16 marzo 2012
Un’ “azione a distanza”, una “accelerazione dell’interdipendenza”, una “compressione spazio-temporale” e infine una “contrazione del mondo”. Attraverso questi concetti, gli autori di Globalismo e antiglobalismo offrono una loro interpretazione al fenomeno della globalizzazione, che si aggancia anche a quello d’integrazione globale a livello di relazioni e interrelazioni fra regioni e aree diverse del nostro pianeta.
Il testo affronta questo dibattito riconducendolo a due grandi scuole di pensiero: i globalisti, ossia i sostenitori di questo fenomeno e gli antiglobalisti ovvero gli “scettici”.
Da un lato, i globalisti ritengono che le trasformazioni verificatesi su scala mondiale siano frutto di uno sviluppo storico ineluttabile, che ha agevolato un mutamento in primis organizzativo investendo tutte le sfere della vita umana – economica, sociale, politica, culturale – con i suoi effetti benefici sulla popolazione mondiale: l’innalzamento della speranza di vita, il ridimensionamento del tasso di analfabetismo adulto, la crescita del prodotto lordo pro-capite, la liberalizzazione dei traffici e la crescita del livello occupazionale, soprattutto nei Paesi emergenti, supportate anche da un imponente sviluppo tecnologico.
Dall’altro, gli antiglobalisti, i quali ritengono che la globalizzazione sia solo frutto di una costruzione ideologica delle società sviluppate. I sostenitori della globalizzazione sono dunque accusati di miopia ottimistica, che trascurerebbe alcuni indicatori negativi come l’aumento delle violenze sulle donne, la grande percentuale di bambini esclusi da qualsiasi programma di educazione e istruzione, la diffusione massiccia dell’AIDS, il fabbisogno alimentare nel mondo, le problematiche ambientali.
I due “idealtipi” a confronto s’incontrano alla fine su un terreno comune. Si analizzano infatti i punti di accordo fra le teorie come: la crescita delle interconnessioni all’interno e fra le regioni; la produzione di vecchie e nuove disuguaglianze dovute alla competizione interregionale e globale e una nuova forma di governance internazionale che solleva interrogativi di natura normativa circa il tipo di ordine mondiale in via di costruzione.
Gli autori offrono un contributo fondamentale per meglio comprendere i processi attualmente in atto, scevro da diatribe ideologiche, attraverso l’analisi degli indirizzi da seguire e applicare per realizzare gli eventuali effetti benefici della globalizzazione. In questa maniera, invitano gli attori politici ed economici a soppesare le suddette considerazioni dal momento che sono in gioco questioni che investono principi etici ed istituzionali in grado di incidere sulla giusta organizzazione delle vicende umane e sulla forma futura dell’ordine mondiale.
Scheda tecnica:
Titolo: Globalismo e antiglobalismo
Autori: David Held – Anthony McGrew
Editore: Il Mulino – Universale Paperback
Anno di pubblicazione: 2001
Titolo dell’edizione originale: The Great Globalization Debate: An Introduction, in The Global Transformations Reader – Cambridge, Polity Press – David Held and Anthony McGrew – 2000
Pakistan (factsheet)
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 18 aprile 2012
La Repubblica islamica federale del Pakistan è situata in un’area strategica tra l’Asia meridionale, il Medio Oriente e l’Asia Centrale. E’ bagnata dal Mar Arabico (oceano indiano) e dal Golfo di Oman nel sud; confina con l’Iran e l’Afghanistan ad ovest, con l’ India ad est e Cina nel nord-est. Lo Stato moderno del Pakistan è stato fondato nel 1947 ma deriva da una delle più antiche forme di civiltà, quella della Valle dell’Indo, sorta circa 5000 anni fa. La cultura pachistana e le sue tradizioni riflettono, perciò, una fusione di varie influenze culturali. La capitale è Islamabad. Con più di 200 milioni di abitanti, il Pakistan è il sesto stato più popoloso del mondo. E’ membro dell’ONU dal 1947 e dell’Organizzazione della Conferenza Islamica dal 1969.
Politica interna
Il Pakistan è diviso amministrativamente in quattro province: Punjab, Sindh, Khyber Pakhtunkhwa (KPK) e Baluchistan. Il Pakistan esercita la sovranità su di un’entità territoriale autonoma, il Pakistan-Administered Kashmir (PAK) che è una parte della regione del Kashmir, da tempo considerato “territorio disputato”
Recentemente, l’omicidio del governatore del Punjab, Salman Taseer, avvenuto lo scorso gennaio 2011 in un periodo di forte instabilità politica, riporta drammaticamente all’attenzione il livello di penetrazione dell’ideologia integralista fra le milizie pachistane e stronca sul nascere ogni trattativa esistente tra i due grandi partiti della coalizione al governo, il Pakistan People’s Party (Ppp), il Partito Popolare Pachistano del capo dello Stato Asif Ali Zardari e del premier Syed Yousuf Raza Gilani e il Muttahida Qaumi Movement (Mqm). Questi, passati nella fila dell’opposizione, lasciano il Ppp senza una maggioranza e compromettono ulteriormente i rapporti con Zardari, vedovo dell’ex premier pachistana Benazir Bhutto, uccisa in un attacco suicida nel 2007, per il quale venne accusato Musharraf, ex capo di Stato Maggiore, appoggiato dal Mqm, assieme ai terroristi islamici di al-Qa’ida.
Il difficile equilibrio politico mette in evidenza il ruolo influente dei servizi segreti pachistani, l’ISI (Inter-Services Intelligence) che, secondo molti, sarebbero i sostenitori dei talebani sin dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979 e mai realmente contrastati da Musharraf se non con proponimenti di facciata.
Secondo gli analisti militari, il potere dei servizi segreti dell’ISI ha raggiunto negli ultimi anni un’aggressività inaudita grazie all’aiuto della Difa-e-Pakistan, il Consiglio per la difesa del Pakistan che riunisce più di quaranta sigle appartenenti a partiti islamici e organizzazioni terroristiche. L’ISI e il suo direttore, il Generale Pasha sono infatti sospettati di essere responsabili di una lunga scia di terrore che si consuma quotidianamente per punire o estorcere informazioni a giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani, operatori appartenenti a organizzazioni umanitarie e talvolta comuni cittadini, costretti alla prigionia o all’esilio, rapiti, uccisi o mutilati. Lo scorso maggio 2011, l’omicidio del giornalista Saleem Shahzad, colpevole di aver scoperto legami fra gli stessi servizi e i gruppi terroristi, ne sarebbe, infatti, una triste testimonianza.
Tuttavia agli intrighi al vertice corrispondono tensioni etniche dai risvolti sociali, economici e politici, come ad esempio i contrasti nel Sindh tra gli attivisti armati del Mqm, che difendono gli interessi dei Mohajirs (in urdu “rifugiati” provenienti dall’India) e il Partito nazionalista Awami (Anp), che rappresenta la comunità di etnia pashtun insediatasi stabilmente nel capoluogo Karachi, cuore economico del Pakistan e al centro della contesa tra i due gruppi. La città è inoltre teatro di feroci violenze, accresciutesi dopo il trasferimento di oltre 300 mila sfollati pashtun provenienti dalle zone dette FATA (Federally Administered Tribal Areas), costretti a convivere con i talebani che già esercitano il controllo effettivo del territorio.
L’altra area colpita dagli scontri etnici è il Balucistan. La regione dei separatisti è oggetto di un vero e proprio assedio compiuto dai servizi segreti, nonostante i buoni propositi dei partiti al governo che promettono di risolvere la causa a sostegno di una regione tra le più povere e meno sviluppate del Paese e per questo definita, già ai tempi dell’Impero britannico “il posto in cui Dio ha gettato tutta la spazzatura del creato” (Azione, settimanale n.03 – 2011)
Situazione economica
La ricchezza economica e naturale del Pakistan è rappresentata dal fiume Indo (Sindh in lingua urdu). La valle dell’Indo, come nell’antichità, mette a disposizione delle popolazioni enormi provvigioni di acqua per scopi agricoli e di trasporto. Il settore agricolo quindi regge l’economia del Pakistan e rappresenta i 2/5 del mercato del lavoro (CIA – The World Factbook). La principale fonte di guadagno da esportazione del Pakistan è riassunta nei materiali tessili. Assieme a Cina, Usa, India, il Pakistan è, infatti, nel gruppo dei Paesi che produce i 3/4 del cotone di tutto il mondo.
Le altre esportazioni significative riguardano i prodotti manifatturieri, principalmente articoli in cuoio e in pelle, articoli sportivi, tappeti e coperte. Nello specifico: il Punjab, reso fertile dalle acque dell’Indo, è noto per la coltivazione del frumento; il KPK per la produzione di agrumi, frutta secca e legname; la terra del Sindh, al sud, è conosciuta per la ricca produzione agricola e il suo capoluogo Karachi, la città più popolosa del Pakistan, è un grande centro industriale e finanziario. Infine il Baluchistan è un’estesa regione che dispone di enormi risorse naturali e riserve di gas.
Nonostante questa varietà produttiva, le decennali dispute interne e i bassi livelli d’investimento estero hanno reso il Paese vulnerabile, conducendolo ad una crescita economica lenta.
Negli ultimi anni, la bassa produttività e l’inflazione hanno portato all’aumento dei prezzi sui beni alimentari di base e come risultato dell’instabilità politica ed economica, la rupia pachistana è stata deprezzata più del 40%. La disoccupazione ufficiale non ritrae fedelmente il volto di un Paese costretto a fronteggiare un’economia sommersa.
Per riportare in equilibrio le sorti economiche e finanziarie del Paese, il governo ha accettato nel novembre 2008 il programma di aggiustamento strutturale promosso dal Fondo Monetario Internazionale (The IMF Stand-By Arrangement del 23 Novembre 2008): un accordo di circa 8 miliardi di dollari attraverso i quali il FMI si è impegnata a ripristinare la stabilità macroeconomica e sociale del Paese offrendo un sostegno ai più poveri e ai più vulnerabili.
Nonostante gli accordi internazionali, la produzione pachistana è ferma dal marzo 2011 aggravata dall’aumento dei prezzi del petrolio importato e dalla riduzione del prezzo del cotone esportato. L’investimento estero, causato dalle preoccupazioni degli investitori nei confronti di un governo instabile e dal sostanziale rallentamento dell’economia globale, non ha mai realmente risollevato il Paese.
Relazioni internazionali
Nonostante le trattative e le varie misure di sicurezza, il Kashmir rimane la grande disputa territoriale internazionale che coinvolge Pakistan (le aree poste sotto il suo c
ontrollo sono Azad Kashmir e le “Northern Areas” che coprono una superficie di 97.547 Kmq), India (le cui aree sono Jammu e Kashmir, per un’estensione di 81.954 Kmq) e Cina (i cui territori sono Aksai Chin e Shaksgam e misurano 42.735 kmq) [Ministero della Difesa].
Con l’India i rapporti rimangono altamente precari ma stabili dal 2004, sin dalla fine del conflitto del Siachen, un confine conteso da India e Pakistan, tra il ghiacciaio Siachen e le creste montuose di Karakorum, tra le montagne dell’Himalaya e mai riconosciuto a livello internazionale. Inoltre il Pakistan contesta all’India la costruzione della diga di Baglihar sul fiume di Chenab e l’insediamento indiano nell’area dell’estuario del Sir Creek nel Mar Arabico.
Un altro confine, la Durand Line (Linea Durand), scarsamente delimitato ma ufficialmente riconosciuto, separa per 2640 km Afghanistan e Pakistan. Divide due realtà tribali preesistenti che non ne riconoscono la legittimità e sono impegnati nel rivendicare, contro i propri governi, la creazione di una terra dei Pashtun o Pashtunistan. Il confine militarizzato, sfruttato come base per i gruppi ribelli e i fondamentalisti afghani per lo scambio di attività illegali, la cosiddetta “mafia dell’oppio” pashtun, continua ad essere una fonte di tensione tra i due Paesi.
I difficili rapporti di vicinato e il problema delle “complicità di Stato” fra servizi segreti e gruppi talebani hanno aggravato le relazioni diplomatiche fra Usa e Pakistan. L’alleanza tra i due Stati, nata con la guerra al terrorismo sulle ceneri dell’11/09, ha infatti raggiunto il livello più basso degli ultimi dieci anni, soprattutto in seguito all’uccisione di Bin Laden da parte degli statunitensi, accusati di non aver pre-allertato il governo pachistano del blitz nel covo di Abbottabad. Il rapporto tra i due Stati è sempre più teso a causa dei continui attacchi dei droni statunitensi nelle aree tribali FATA lungo il confine con l’Afghanistan, criticati soprattutto dall’opinione pubblica pachistana per il crescente numero di vittime civili e dall’annunciato taglio di 800 milioni di dollari negli aiuti militari al Paese. La risposta è stata quella di privare gli Stati Uniti dell’uso della strategica base militare di Shamsi nel Belucistan e di chiudere le due principali rotte di rifornimento dell’Afghanistan utilizzate dai militari americani per consentire il transito di circa 50% del carburante, veicoli, munizioni e cibo diretti al vicino Stato afghano.
Sebbene la vera partita si stia giocando sulla questione della sovranità del Paese, non più disposto a subire l’ingerenza statunitense, gli ultimi periodi sono stati segnati da un’intensa escalation della tensione. Il motivo scatenante è stato definito “memogate”, l’ultimo caso scoppiato lo scorso novembre 2011 che ha trovato in Haqqani, l’ex ambasciatore pachistano a Washington, l’autore di un memorandum inviato all’ammiraglio statunitense Michael Mulle, in cui si denuncia l’esistenza di un golpe progettato dai generali dell’ISI che avrebbe favorito le attività terroristiche nel Paese. Haqqani chiedeva a Washington uno scambio: l’intervento tempestivo degli Stati Uniti a scoraggiare il piano eversivo dei servizi segreti in cambio di misure più risolute per combattere la sfrenata azione terroristica nel Paese ed esercitare un maggiore controllo sull’arsenale nucleare in possesso.
Previsioni
Da un punto di vista economico, nonostante il livello di povertà raggiunga quasi il 50% della popolazione pachistana e l’inflazione sia arrivata a più del 13% nel 2011 dal 7.7% nel 2007 (The World Bank), la situazione rimane preoccupante ma non drammatica. Secondo il Rapporto 2010 sullo Sviluppo Umano, la speranza di vita dalla nascita è in aumento e il valore dell’Indice di Sviluppo Umano del Paese nel ventennio dal 1980 a 2010 è passato dallo 0.311 a 0.490, con un aumento annuale medio dell’1.5%, sebbene si attesti sempre al di sotto della media dello 0.516 dei paesi dell’Asia meridionale. Le sfide principali riguardano l’investimento nel campo dell’istruzione, delle cure sanitarie e sulla disoccupazione, che costringe alla migrazione la popolazione e frena la produzione agricola.
Sul fronte internazionale, il governo, nella stretta della crisi economica, deve recuperare i suoi rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e negoziare con i “vicini” India e Afghanistan per continuare a sperare ancora sugli aiuti finanziari elargiti da Washington e dal FMI, già intervenuti in soccorso.
Sul fronte interno, il governo pachistano deve far fronte a una destabilizzazione politica generalizzata, dovuta probabilmente alla fragilità delle Istituzioni pubbliche nel contrastare il potere dilagante delle gerarchie militari e dei servizi segreti e all’incapacità di frenare la lunga faida tra gruppi politici, gli scontri a sfondo etnico-politico e la diffusa “talebanizzazione” del Paese già in atto.
Principali dati socio-economici
India-Italia: il rapimento di Paolo Bosusco e Claudio Colangelo
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 5 giugno 2012
Non è ancora stata chiarita la dinamica, né il momento in cui Paolo Bosusco, la guida turistica piemontese di Condove (TO) e Claudio Colangelo, un volontario missionario della provincia di Roma, sono stati rapiti da alcuni esponenti del movimento maoista Basadhara, nei pressi di Daringibadi, un centro di attrazione turistica nel distretto di Kandhamal, nello stato federato dell’India orientale dell’Orissa.
La vicenda
Secondo la polizia del distretto, i due italiani sarebbero stati rapiti lo scorso 14 marzo – secondo altre fonti, invece, il rapimento sarebbe avvenuto il 16 marzo – insieme ad altri tre indiani: un autista (Debendra Mohapatra), un aiutante (Kartika Parida) e un cuoco (Santosh Moharana). Questi ultimi rilasciati immediatamente.
Il sito della tv indiana NDTV ha riferito che poco prima del rapimento, i due italiani stavano scattando delle foto a delle donne locali intente a lavarsi in un fiume. In questa vicenda potrebbe anche inserirsi una recente controversia che oppone il governo locale dell’Orissa ai tour operator, per via di una legislazione sempre più rigida nei confronti dei turisti in materia di protezione della privacy dei gruppi tribali dell’area. Il funzionario di polizia JN Pankaj riferisce, infatti, che la polizia avrebbe impedito l’accesso a due escursionisti stranieri, mettendoli in guardia sulla minaccia rappresentata dai guerriglieri maoisti nella zona al confine fra i dipartimenti di Kandhamal e Ganjam.
Sembra, però, che i due italiani rapiti non fossero nuovi a viaggi simili. Bosusco, in particolare, era molto conosciuto nella zona. Frequentava l’India da 15 anni e viveva in Orissa otto mesi l’anno dove gestiva nella città di Puri – capoluogo del distretto di Puri – un’agenzia di viaggi, l’Orissa Adventurous Trekking, specializzata in escursioni alla scoperta delle tribù primitive della regione. A lui si era rivolto Claudio Colangelo, ex impiegato in pensione di Rocca di Papa, a pochi chilometri da Roma. Volontario per passione, Colangelo è sempre stato impegnato in missioni umanitarie in Amazzonia e un estimatore di tribù primitive.
La rivendicazione dei ribelli
In un’audio-rivendicazione mandato in onda dall’emittente NDTV, i ribelli hanno avanzato tredici richieste ai governi dello Stato dell’Orissa e dell’Unione Indiana, minacciando possibili conseguenze sui turisti se le stesse richieste non fossero state accolte entro pochi giorni dal sequestro. Tra queste spiccava una richiesta di denaro, la liberazione dei prigionieri politici maoisti e il blocco dell’operazione “Green Hunt”, l’offensiva delle forze di sicurezza indiane contro i ribelli maoisti “Naxal” lanciata già nel novembre del 2009.
I ribelli – noti anche come “Naxaliti” dall’insurrezione del 1967 a Naxalbari nel Bengala Occidentale – rappresentano un movimento con diverse sfaccettature. L’ideologia marxista comunista cui si ispirano, continua a sedurre ancora oggi le masse agricole e le comunità tribali rimaste escluse dal boom economico sebbene i sanguinosi attentati, le estorsioni, i sequestri ricorrenti di funzionari locali e poliziotti abbiano amplificato l’ostilità dell’opinione pubblica indiana.
Recentemente, si sono levate in loro favore voci di intellettuali di sinistra come la scrittrice pacifista Arundhati Roy che si è detta pronta a mediare in un eventuale negoziato di pace coi ribelli.
Arundhati Roy, che ha trascorso del tempo nelle foreste dell’Orissa, sa che qui lo Stato indiano non riesce a esercitare potere, che invece è nelle mani dell’esercito maoista, delle milizie di villaggio e dei consigli popolari. Nel suo ultimo libro “In marcia con i ribelli” racconta uno scenario drammatico: in Orissa, il governo indiano ha offerto pre-concessioni minerarie (bauxite e molti altri minerali) a grandi imprese multinazionali. Nonostante la Costituzione indiana vieti lo sfruttamento delle tribù di “andivasi” (gli indigeni tribali), le autorità da anni stanno conducendo una guerra che comporta la distruzione di villaggi, arresti arbitrari, uccisioni, stupri e deportazioni. Così, il movimento naxalita si è via via affiancato alla resistenza degli andivasi, espandendosi in tutta l’India centrale. Arundhati afferma che in India vi sono moltissimi tipi di forme di resistenza a questa crescita economica, che è considerata “una guerra contro i poveri” e forse, conclude, la capacità di ricacciare indietro lo “sviluppo” violento, viene proprio da questa pluralità.
La liberazione dei due ostaggi in tempi diversi
A poche ore dall’arrivo della notizia del rapimento dei due italiani, il governatore dell’Orissa, Naveen Patnaik, ha presieduto una riunione di emergenza con tutti i responsabili delle forze di polizia e di sicurezza operanti nell’area del sequestro dando la sua disponibilità ad intavolare un dialogo a condizione che i due italiani rapiti fossero rilasciati immediatamente e incolumi.
Intanto mentre da Nuova Delhi venivano sospese tutte le operazioni dei paramilitari contro i ribelli, dall’Italia, la Procura di Roma apriva un fascicolo sul rapimento per “finalità di terrorismo” e i maoisti facevano sapere di essere disposti a liberare un ostaggio qualora almeno una delle tredici richieste avanzate ai governatori dello Stato locale e federale venisse accolta.
Finalmente il 24 marzo, i ribelli maoisti hanno liberato Claudio Colangelo che dopo essere stato consegnato dai maoisti ad alcuni reporter locali ha raccontato di aver vissuto giorni difficili sostenendo la sua totale estraneità, e quella di Paolo Bosusco, alle dispute in atto tra diversi avversari politici.
A poche settimane dall’arresto dei due marò italiani trattenuti a Kerala (sebbene se ne esclude ogni collegamento), le parole di Colangelo hanno riportato infatti alla luce una situazione di incertezza diplomatica tra l’Italia, il governo centrale indiano e quello locale dello Stato dell’Orissa, intensificando le preoccupazioni su questi due casi.
All’ultimatum rinnovato dai ribelli per la liberazione di Paolo Bosusco con un nuovo video messaggio in cui si dicevano pronti a compiere “passi estremi” nel caso in cui il governo non avesse soddisfatto pienamente le loro richieste, finalmente il 12 aprile il leader dei ribelli Panda affermava di aver ricevuto un documento, sottoscritto da cinque mediatori e di aver preso visione degli impegni assunti dal governo in cambio della liberazione di Bosusco.
Il governo dell’Orissa trovatosi sotto molteplici pressioni – inclusa quella della polizia che continua oggi a protestare contro la scarcerazione di militanti ribelli, poiché vivrebbero nel terrore di rappresaglie (Il Manifesto) – si vedeva costretta a mantenere anche tutti i patti non rispettati lo scorso anno in occasione di un altro rapimento di un alto funzionario dello stato di Orissa, conclusosi fortunatamente con il rilascio.
La svolta, dopo giorni difficili di braccio di ferro tra maoisti e governo, è arrivata con l’impegno di Naveen Patnaik attraverso un “processo democratico” a: riconoscere lo status di “tribù registrate” alle popolazioni dei vicini distretti; migliorare le condizioni di alcune comunità tribali che vivono in regioni molto povere sebbene ricche di giacimenti minerari; risistemare gli sfollati e fermare la deforestazione a causa dei progetti minerari e scarcerare i 27 prigionieri maoisti tra i quali Subhashree Panda, moglie del leader Panda, conosciuta come “Mili”.
Per Paolo Bosusco l’incubo è finito. Al suo arrivo a Bhubaneswar, visibilmente dimagrito dopo quasi un mese nella foresta, ha avuto parole di comprensione per i maoisti. Nonostante il suo rapimento Bosusco ha raccontato di questa gent
e che “ha sofferto ingiustizie incredibili” mentre l’opinione pubblica li condanna a “dei criminali sanguinari”. Ha proseguito: “Fanno sentire le loro idee ..sebbene le impongano con le armi, ma sono esseri umani che hanno dimostrato il loro lato più umano. Basti pensare alle loro richieste genuine: l’assistenza medica per i tribali e le lezioni scolastiche nella loro lingua”.
Conclusioni
Il rapimento dei due italiani ha dunque suscitato molte preoccupazioni e analisi affrettate che ha visto per la prima volta in assoluto, sottolinea NDTV, un sequestro di cittadini stranieri da parte di uno dei gruppi del movimento maoista-naxalita. Alcuni analisti sostengono che il rapimento non avrebbe avuto l’intero dispiegamento di forze da parte dei gruppi maoisti né una chiara strategia preparatoria; si tratterebbe infatti di un’operazione locale, dettata più dalla situazione contingente riguardante le ambizioni personali di Sabyasachi Panda, che da una precisa intenzione strategica. Inoltre la pratica dei “safari umani”, molto in voga negli ultimi tempi tra i tour operator che attirano centinaia di turisti stranieri nelle aree tribali, non rappresenterebbe la causa primaria del rapimento, ma una dimostrazione del leader dei ribelli dell’Orissa di poter ricoprire un ruolo di primo piano all’interno del Comitato Centrale senza subire il controllo di altri leader maoisti, in particolar modo quelli provenienti dalla vicina Andhra Pradesh a capo delle operazioni in Orissa.
Si tratta dunque di un fattore che testimonia la scarsa unità dei gruppi maoisti e complica la soluzione del problema naxalita in tutto in Paese, vista l’estensione dell’insurrezione e l’appoggio attivo di una parte della popolazione.
Il primo ministro Manmohan Singh alcuni anni fa l’aveva già definita come la più grande minaccia per la sicurezza interna dell’India contemporanea: la sollevazione naxalita riguarda attualmente tutta la fascia nord-orientale e centro-orientale del Paese, il cosiddetto “corridoio rosso” dell’insurrezione maoista, interessando circa 20 dei 28 Stati componenti la Federazione indiana.
Secondo alcuni analisti la rivolta maoista, possibile ostacolo per la coesione interna del Paese, sarà completamente superata una volta che l’India saprà sconfiggere efficacemente l’estesa povertà presente nelle regioni contraddistinte dalla rivolta naxalita, affrontando i temi complessi legati allo sviluppo della maggioranza della sua popolazione, senza per questo stravolgere le peculiarità del sistema sociale e culturale locale in essere.
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Approfondimenti
“In marcia con i ribelli”di Arundhati Roy edito nel 2012 da Guanda
Birmania: l’ascesa politica di Aung San Suu Kyi e l’apertura democratica
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 7 luglio 2012
Un trionfo storico per il Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, eletta parlamentare lo scorso 1 aprile 2012 grazie a un voto suppletivo, che ha assegnato alla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) 44 seggi su 45 totali dove il partito dell’attivista birmana ha presentato propri candidati e che ha consentito alla sua leader di ottenere nella sua circoscrizione di Kawhmuha l’82% dei voti.
Si tratta delle seste elezioni dalla proclamazione dell’indipendenza (1947) in Birmania e potrebbero segnare una tappa importante nel cammino del Paese asiatico verso la democrazia. Questo risultato rappresenta lo spartiacque rispetto a più di un ventennio di repressione: dalla rivolta studentesca del 1988 alla “rivoluzione zafferano” dei monaci del 2007 e ora potrebbe convincere l’Occidente ad iniziare un processo di allentamento delle sanzioni economiche contro il Paese.
Positive le prime reazioni internazionali. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton si è congratulata con il popolo della Birmania per aver partecipato al processo elettorale e ha invitato tutti a lavorare ancora per la trasparenza e ad altre riforme. Ottimista anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon sul percorso delle riforme in atto in Myanmar.
Sebbene il successo di Aung San Suu Kyi e del suo partito sia stato evidente, le elezioni suppletive non cambiano gli equilibri in seno al Parlamento, dominato ancora dal partito di governo l’Union Solidarity and Development Party (USDP) che mantiene la maggioranza assoluta dei seggi, pari a 212 parlamentari su 287 (in termini percentuali il NLD ha ottenuto il 6% del totale dei seggi in Parlamento contro il 79% del USDP, di cui il 25% di seggi è assegnato ai militari). Ciò ha contribuito ad attribuire alla vittoria del NLD un evidente significato politico, che proietta il partito d’opposizione e la sua leadership ad una prossima sfida: le elezioni generali del 2015, dove si assisterà al faccia a faccia fra governo sostenuto dall’USDP e l’opposizione democratica.
Aung San Suu Kyi: da “orchidea d’acciaio” del movimento per la democrazia in Myanmar a Premio Nobel per la Pace 1991
Il destino Aung San Suu Kyi era già scritto. Nata in una famiglia di attivisti – il padre, il generale Aung San, fu leader della lotta indipendentista birmana dalla dominazione inglese, la madre divenne una delle figure politiche di maggior rilievo del Paese – Suu Kyi si appassiona presto alla politica. Laureata ad Oxford in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia, la giovane parte per gli States e lavora presso le Nazioni Unite. Dopo l’assassinio del padre, Suu cresce in Inghilterra e sposa un professore universitario.
Quando nel 1988 il suo popolo insorge contro la giunta militare, Suu torna nel paese natale e inizia il suo lungo scontro diretto contro il potere assoluto dei generali.
Seguendo le orme di suo padre, fonda la Lega Nazionale per la Democrazia in risposta alla presa di potere di una nuova giunta militare. L’affronto della carismatica San Suu Kyi non piace e viene messa agli arresti domiciliari dai militari che la considerano una minaccia troppo pericolosa, soprattutto in seguito alla sua presa di posizione netta a favore dei tremila dimostranti per la democrazia, uccisi nell’agosto rivoluzionario del 1988.
Influenzata dal pensiero di Gandhi, San Suu Kyi fonda la sua politica sul concetto della nonviolenza come cardine di ogni movimento di dissenso divenendo lei stessa, proprio come insegnava il Mahatma, il cambiamento che voleva vedere avvenire nel mondo.
Il suo impegno per la democrazia e per i diritti umani all’interno del suo Paese e il riconoscimento come Rappresentante internazionale della non-violenza, l’hanno portata a vincere le elezioni nel 1990 e soprattutto il Premio Nobel per la Pace l’anno successivo. Liberata definitivamente a Rangoon nel novembre 2010 dopo sette anni agli arresti domiciliari (e 15 passati in detenzione) San Suu Kyi, oggi 66 anni, è riuscita a rivedere i suoi due figli solo dopo 10 anni e a tornare in Europa qualche settimana fa, il 14 giugno 2012, in occasione della conferenza annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro tenuta a Ginevra.
La figura di Aung San Suu Kyi, paladina stoica che per oltre vent’anni sacrifica la propria libertà personale e i propri affetti familiari per la “buona causa” (il regime le ha impedito di vedere i figli crescere e di assistere il marito prima di morire) è stata un’ammirevole fonte d’ispirazione per molti attivisti e artisti. Tanti sono infatti quelli che negli anni si sono mossi in favore della sua liberazione, tra i quali anche diversi musicisti e registi: l’ultimo lavoro del regista francese Luc Besson “The Lady”, con il patrocinio di Amnesty International, la rende di fatto un personaggio della cultura pop.
Timide prove di democrazia
Il tragitto di Aung San Suu Kyi durante il suo lungo tour elettorale era stato già il primo ingresso trionfale della leader dell’opposizione birmana nella scena politica del Myanmar che ancora oggi teme i generali al potere, o meglio la fazione dei falchi, ancora predominante e un’apertura troppo frettolosa alle istanze democratiche.
Questi primi mesi di libertà, celebrati tuttora da migliaia di sostenitori, non hanno ancora avuto un effetto generale su una popolazione che vive – come più volte ha detto la stessa Suu Kyi – “nella prigione della paura”.
Intanto il nuovo presidente, l’ex generale Thein Sein alla guida di un governo formalmente civile, ribattezzato il “Gorbaciov birmano”, negli ultimi mesi ha fatto aperture fino a poco tempo fa impensabili: la liberazione dei prigionieri politici; la proposta di abolizione della legge sulla censura che impone il controllo della stampa da parte del ministero dell’Informazione; la legalizzazione della Lega Nazionale per la Democrazia; i negoziati con le minoranze etniche e l’apertura ad Occidente per l’allentamento delle sanzioni economiche che sottrarrebbero il Paese all’abbraccio soffocante della Cina, il suo maggiore alleato regionale.
Soprattutto, il Presidente si è esposto contro alcuni esponenti del vecchio regime legati a Pechino, Aung Thaung e Myint Oo, chiedendone l’allontanamento, per le evidenti commistioni tra il loro ruolo pubblico e quello di referenti delle compagnie private e di Stato cinesi, da sempre coinvolte nelle infrastrutture dello Stato settentrionale di confine. Aung Thaung, il leader del partito dell’USDP, è stato l’ex ministro dell’Industria nel governo dei generali al tempo in cui Myint Oo era responsabile del Comitato per il commercio. Le tangenti delle grandi compagnie cinesi destinate ai vertici della giunta militare passavano attraverso di loro e non vi era alcun affare senza il vaglio del Comitato, vero tesoriere della Giunta.
Questo esonero, assieme a quello dell’ex capo dell’esercito Than Shwe alla guida dei tatmadaw – soldati specializzati in operazioni repressive e in funzione anti-indipendentista – rappresenta uno dei segnali più forti di svolta politica in Myanmar, sebbene rimangano ancora alcuni nodi importanti da sciogliere come: i 900 prigionieri politici ancora in cella, coinvolti, secondo il governo, in episodi di sabot
aggio e violenza; la situazione dei ribelli Kachin, che continuano a scontrarsi con i soldati e a rifiutare le proposte di cessate-il-fuoco del governo e i 70 mila profughi, costretti ad abbandonare le proprie case e terre per rifugiarsi lontano dal conflitto.
A trattare con il Kachin indipendence army (KIA), presto sono stati chiamati due uomini del team di Thein Sein come Sai Maung Khum e soprattutto il ministro delle Ferrovie, Aung Min, il negoziatore famoso per aver concluso con successo altre 12 trattative con altrettanti eserciti separatisti, a cominciare dal cessate-il-fuoco con il gruppo Karen dopo una guerra durata 60 anni.
Nonostante le premesse, è difficile prevedere l’esito di questi negoziati con i ribelli di etnia cinese lungo i confini, come gli stessi Kachin, Wa e Chin che risentono della forte influenza di Pechino. I recenti segnali di distacco dalla storica dipendenza dall’economia cinese – come dimostra la cancellazione di una diga proprio in territorio Kachin – hanno notevolmente messo in allarme il Partito comunista cinese, che si sarebbe messo in contatto con il Partito “fratello” dei comunisti birmani, a sua volta in buoni rapporti con i leader delle etnie ribelli.
Per ora, il presidente Thein Sein è consapevole della necessità di coltivare buoni rapporti con la superpotenza cinese, onde evitare una reazione decisa e offensiva, visto che né la Cina, né tantomeno gli stessi generali al governo con i quali Aung San Suu Kyi deve ora convivere – sono soddisfatti di ritrovarsi la concorrenza americana a due passi da casa. La strategia della leader dell’opposizione, intanto, sembra quella di appoggiare l’alleggerimento graduale delle sanzioni aprendo ai paesi occidentali, trattando ogni richiesta con i generali in materia costituzionale, legislativa, educativa, amministrativa.
Conclusioni: tra rischi e opportunità
Le incognite del futuro rimangono vive, malgrado alcuni segnali positivi.
Un primo campanello d’allarme è rappresentato dalla grande difficoltà nel mettere in atto le riforme economiche (come la lotta alla corruzione, le battaglie per la legalità contro il commercio di droga) che permetterebbero una delicata transizione democratica e liberista.
La gran parte degli analisti danno infatti per scontato un futuro senza sanzioni, trovando il sostegno dell’Unione Europea e le perplessità americane. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia riguardo alle difficoltà di superare lo scoglio dei costi interni e delle carenti infrastrutture per le imprese, le quali sperano di affermarsi sul mercato birmano, e che l’alleggerimento delle sanzioni potrebbe non essere così rapido come richiesto dal Paese. Per ora infatti l’unica concreta concessione da parte americana – oltre alla riapertura dell’ambasciata a Rangoon – è stato un finanziamento di 30 milioni di dollari annui per aiuti umanitari.
Nepal: an assessment on Food Security
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 12 settembre 2012
Food security is a basic human right1. This has been recognized by the government of Nepal who has given high importance to ensuring food security for all its citizens. Despite this, food security trends are declining: the national cereal deficit is widening, affects of climate change are uncertain but drought episodes and flooding are becoming more frequent, improvements in nutrition are insignificant and slow, and there is an increasing reliance on remittances as the main driver of economic growth.
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Nepal (factsheet)
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 2 ottobre 2012
Il Nepal o Repubblica federale democratica del Nepal è uno stato dell’Asia meridionale di 147.181 km². Confina a nord con la regione del Tibet e a sud con l’India. Il territorio nepalese, prevalentemente montuoso, non ha sbocchi sul mare ed è compreso tra la pianura del Gange e la catena montuosa dell’Himalaya. La capitale Kathmandu è situata a circa 1.350 m d’altitudine, con una popolazione di 850.000 abitanti e circa 1.500.000 nell’intera area metropolitana comprendente diverse città e villaggi fra cui Lalitpur e Bhaktapur. L’area si estende nella cosiddetta Valle di Kathmandu, corrispondente all’alto bacino del fiume Bagmati. Geograficamente è diviso in tre tipologie di ambienti: il Terai, le colline e le montagne, che corrono da est a ovest e sono verticalmente intersecate da nord a sud da un ampio sistema fluviale. Amministrativamente il Nepal è diviso in cinque regioni di sviluppo (l’estremo occidente, il medio occidente, l’occidente, l’area centrale e l’area orientale) a loro volta suddivise in 14 zone amministrative e 75 distretti.
Politica interna
Dopo 260 anni di monarchia costituzionale, il 28 dicembre 2007 il Parlamento nepalese ha approvato un emendamento che ha sancito la transizione dalla monarchia alla repubblica, avvenuta il 28 maggio 2008 attraverso la votazione quasi unanime dei 601 rappresentanti dell’Assemblea Costituente, l’organo preposto a realizzare una nuova carta costituzionale e un nuovo assetto politico.
Le condizioni democratiche della politica nepalese sono abbastanza recenti e risalgono al periodo compreso tra il 1990 e il 2006, quando l’ondata di protesta popolare chiamata Jana Andolan obbligò il re Gyanendra, dopo una sanguinosa insurrezione decennale, ad abbandonare la monarchia e a promulgare l’attuale costituzione provvisoria.
Le agitazioni politiche dipendono in gran parte da un elevato numero di partiti politici esistenti che possono essere ricondotti a tre grandi aree ideologiche: l’ala nazionalista sostenitrice della monarchia e della religione induista, come il Rastriya Prajatantra Party; il partito comunista o il Communist Party of Nepal e il partito del Nepali Congress, cha dopo una prima scissone, si è poi riunito nel 2007. Questi ultimi due partiti, insieme al Partito dei Lavoratori e dei Contadini Nepalesi; al partito federalista a tutela della pianura del Terai, il Nepal Sadbhavana Party; al Fronte Unito della Sinistra e al Fronte Popolare Nepalese, il Janamorcha Nepal, costituirono quella che fu tra il 2006 ed il 2009 l’Alleanza dei sette partiti, diventati otto partiti quando in seguito si è aggiunto il partito maoista di Puspa Kamal Dahal, noto come Prachanda.
Sfruttando le agitazioni del 2006 e accordandosi con le istituzioni nel momento più propizio e conveniente ai loro scopi, i maoisti riuscirono ad entrare in Parlamento con settantadue deputati, soltanto due meno del Nepali Congress, il partito di maggioranza mentre il loro esercito riusciva ad essere integrato gradualmente nella vita civile e annesso all’esercito regolare. Il Parlamento così composto, incaricato di eleggere l’Assemblea Costituente, aveva nominato Prachanda in qualità di Primo Ministro.
Il successo dei maoisti in quegli anni è merito della strategia del loro leader: sfruttare la sfiducia generale per assicurarsi un risultato elettorale che avrebbe trasformato il Nepal in una repubblica socialista e, nello stesso tempo, scatenare le proteste popolari screditando i sindacati esistenti e mantenendo il controllo sulle aree rurali, teatro di una massiccia mobilitazione e campagna di reclutamento da parte di simpatizzanti maoisti, come la nuova organizzazione giovanile del Young Communist League (Ycl).
Dopo poco tempo, la presidenza di Prachanda aveva raccolto del malcontento non solo a livello internazionale e diplomatico ma soprattutto tra i suoi ex-sostenitori. Negli ultimi anni il “compagno Prachanda” era stato accusato di essersi “imborghesito” e di avere abbandonato la lotta armata, firmando una sorta di coalizione-farsa con i partiti che lo avevano portato a vincere le elezioni. Inoltre la progressiva perdita di potere nella regione del Terai e le continue denunce da parte di imprenditori e commercianti a danno della Ycl, ribattezzata ben presto “Young Criminal League” per l’abitudine a rapire, picchiare, terrorizzare ed estorcere denaro in tutto il Paese anzicché supportare la polizia a mantenere la pace e l’ordine, avevano suscitato le proteste delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani e il clima di terrore instauratosi nel Paese e compromesso la credibilità e l’operato dei maoisti in Parlamento.
La politica interna nepalese degli ultimi anni è stata quindi indirizzata a gestire il nuovo assetto repubblicano, l’assimilazione del’esercito maoista come forza politica “regolare” e a mantenere la coesione della coalizione di governo. Nell’agosto del 2011 dopo anni di stallo politico, l’Assemblea Costituente ha nominato Primo Ministro Baburam Bhattarai del Partito Comunista Maoista Nepalese, dopo Khanal, Kumar Nepal e lo stesso Prachanda.
Situazione economica
Il Nepal è tra i paesi più poveri e meno sviluppati del mondo. Circa un terzo della popolazione del Paese vive con meno di 1,25 dollari statunitensi al giorno e la sua economia è legata gran parte all’India e agli aiuti internazionali.
La sua posizione geografica, la scarsità di risorse naturali, le condizioni climatiche (legate in particolare alla stagione dei monsoni) e soprattutto i cambiamenti politici hanno condizionato notevolmente l’economia del Nepal. La situazione interna negli anni ha avuto naturalmente riflessi sul turismo, fonte di reddito del Paese. Il tasso di crescita del PIL annuo nell’ultimo decennio è cresciuto solo del 4,8% annuo; inferiore del 6% rispetto al piano quinquennale (1997-2002); ovvero lo strumento tipico delle economie pianificate nei Paesi di matrice comunista. (CIA – The World Factbook)
Nonostante ciò, l’agricoltura continua ad essere il cardine dell’economia. Essa fornisce mezzi di sussistenza per i tre quarti della popolazione e rappresenta circa un terzo del PIL. La produzione agricola è in crescita di circa il 5% in media rispetto alla crescita demografica annua del 2,5%; questo è stato possibile anche agli sforzi del governo che dal maggio 1991 ha avviato una serie di riforme economiche per incoraggiare il commercio e gli investimenti esteri, eliminando le licenze commerciali e le esigenze di registrazione, al fine di semplificare le procedure di investimento.
L’attività industriale invece è concentrata soprattutto nella trasformazione dei prodotti agricoli tra cui il tabacco, juta, canna da zucchero e grano. Solo di recente, la produzione di tessuti e tappeti si è ampliata e oggi rappresenta circa l’80% delle entrate in valuta estera negli ultimi due anni.
Durante la recessione globale del 2009, le rimesse dei lavoratori nepalesi all’estero in assenza di reali opportunità di lavoro locali è aumentato del 47% fino a 2,8 miliardi, mentre gli arrivi turistici, che hanno ispirato molte spedizioni sulle montagne dell’Himalaya, sono diminuiti solo dell’1% (CIA – The World Factbook). Intanto nell’ultimo anno (2012) la rupia nepalese, ancorata alla moneta indiana, ha raggiunto il minimo storico verso le valute forti, nonostante la crisi dell’euro, fissandosi alla soglia di Nrs. 112. (Blog di Enrico Crespi)
Relazioni internazionali
Nel 2011, a cinque anni dalla sua creazione, la missione Onu ha lasciato il Nepal in condizioni preoccupanti, tra vuoto istituzionale, bande armate e il risc
hio di un colpo di Stato. La chiusura dell’Unmin (United Nations Mission in Nepal), la missione delle Nazioni Unite creata per monitorare il processo di pace in Nepal, ha lasciato il paese tra polemiche e tensioni politiche senza ottenere i risultati sperati.
La missione era stata creata nel 2006 quando Prachanda aveva firmato con la mediazione delle Nazioni Unite uno storico accordo con il governo che avrebbe sancito la fine della lotta armata dei guerriglieri e messo fine a una guerra civile che è durata più di dieci anni e che è costata la vita a circa tredicimila persone. Aveva il compito di monitorare e sorvegliare la consegna delle armi da parte dell’esercito e dei ribelli maoisti, considerati ancora dagli Stati Uniti un’organizzazione terrorista a tutti gli effetti.
Sul fronte delle controversie sui rifugiati, il Nepal, stretto fra l’India e la Cina che si contendono il Paese (Pechino, in particolare, non vuole lasciare che diventi una terra franca per i tibetani), conta dal 1990 ad oggi circa 106.000 Lhotshampa (cittadini bhutanesi di origine nepalese, di religione induista, in gran parte espulsi dal Bhutan durante la pulizia etnica degli anni novanta) confinati nei campi profughi nel sud-est del Paese e circa 15.000 tibetani provenienti dalla Cina per cercare asilo politico. (tibetanrefugee.org)
Intanto una commissione di frontiera continua a lavorare su sezioni di terra contestate di confine con l’India, tra cui il controverso territorio di circa 400 km² a ridosso del fiume Kalapani, conteso tra il distretto di Darchula, in Nepal e il distretto di Pithoragarh, in India; un’area per la quale l’India ha istituito un regime rigoroso per limitare il transito dei ribelli maoisti e le illegali attività transfrontaliere.
Previsioni
Il Nepal è un Paese povero e prevalentemente rurale, con una crescita che si aggira attorno al 3,5%: un rendimento ben al di sotto dei grandi colossi Cina e India che lo circondano. Un Paese dominato da forti divisioni etniche e religiose e questo potrebbe favorire una spinta centrifuga verso i giganti limitrofi.
Questo è uno scenario temuto soprattutto dai bramini della upper class che si opporrebbero ad uno schema politico di tipo federalista: i gruppi etnici dei Tamang, Limbu, e Janajati chiedono un federalismo basato sulle razze; i Bhaunus, i Chetri e Thakuri e i Dasnami, lo chiedono su basi religiose. Infine vi sono i Madeshi che rivendicano una promessa dei maoisti: la separazione politica nello stato unico del Terai.
Queste divisioni, spesso strumentalizzate dalla politica, sono un ulteriore elemento di complessità che acuiscono il senso di instabilità e di insicurezza nel Paese. L’Assemblea Costituente che doveva finire i lavori entro il 2008, dopo 4 anni di continui rinvii (quest’ultima estensione, la quarta, è stata giudicata illegale dalla Corte Suprema che in base alla Carta Costituzionale provvisoria, stabilisce un mandato della durata di due anni, con sei mesi aggiuntivi per eventuali casi di emergenza) ha fallito il suo mandato che avrebbe permesso di promulgare la nuova Costituzione. Tutto da rifare per la classe politica in forza al governo nepalese: in questi ultimi anni non è stata in grado d’amministrare il Paese, di riformare le istituzioni, di creare le condizioni per lo sviluppo e di scrivere il testo definitivo della Costituzione.
Principali dati socio-economici
Filippine: il Governo e i ribelli musulmani firmano la pace
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 1 novembre 2012
Il governo filippino ha raggiunto un accordo di pace con il Moro Islamic Liberation Front (MILF), il più grande gruppo ribelle musulmano dello Stato delle Filippine. L’accordo dopo lunghe trattative ha posto fine a quarant’anni di guerra civile che è costata la vita a più di 120.000 persone e ha provocato circa due milioni di profughi. [BBC.co.uk]. La firma dello storico documento è avvenuta lo scorso 15 ottobre 2012, nella capitale Manila.
Il MILF, è un gruppo di ribelli che ha combattuto contro il governo per quasi 40 anni per i diritti del popolo Bangsamoro, una comunità musulmana presente nell’isola di Mindanao, a sud delle Filippine, a maggioranza mussulmana in un Paese prevalentemente cattolico (oltre l’80%).
Si tratta di un conflitto che poteva essere risolto più volte nel corso degli anni. L’ultimo, fragile cessate-il-fuoco era in vigore dal 2003, supervisionato da un Gruppo di monitoraggio internazionale che ha tenuto sotto osservazione le controversie tra i membri del MILF e l’esercito del governo centrale. Lo stesso presidente in carica, Benigno Aquino, eletto nel 2010, in uno dei suoi principali impegni della sua campagna elettorale, si era pronunciato a favore dei colloqui di pace nel Mindanao, ma l’accordo è stato raggiunto formalmente solo lo scorso 15 ottobre, grazie anche all’intermediazione della Malesia.
Lungo 13 pagine, il documento è frutto di mesi di incontri e consultazioni fra MILF, governo, enti locali e regionali, membri della società civile, fra cui i rappresentanti della Chiesa cattolica, protestante e minoranze tribali. I punti chiave dell’accordo prevedono:
• La creazione di una grande regione autonoma nell’isola di Mindanao, chiamata Bangsamoro. Lo stesso termine “Bangsamoro”, parola locale per identificare la comunità islamica, è un segno della volontà di Manila di riconoscere il dominio ancestrale delle terre da parte delle etnie di religione musulmana. [AsiaNews.it]
• Lo smantellamento graduale delle milizie armate, degli eserciti privati e di altri gruppi armati e il trasferimento “graduale e progressivo” del potere militare dall’esercito alla polizia del Bangsamoro.
• Il riconoscimento dei diritti umani e democratici e l’impegno di sviluppo e di equa ripartizione delle ricchezze naturali presenti nell’area.
• L’espansione di tribunali islamici per i residenti musulmani
• Una nuova legge per le elezioni dei rappresentanti del governo locale e la possibilità di utilizzare la sharia per risolvere le controversie interne alla comunità musulmana.
• L’aggiunta di sei nuove città e diversi villaggi alle cinque province dell’ex ARMM (vedi in seguito): Zamboanga-Basilan – Sulu e Tawi Tawi. Fra i nuovi centri vi sono Cotabato e la città di Isabela, dove si registra la presenza del 50% ca. dei cattolici.
Come si legge nel documento, oltre ad aver ridefinito i confini territoriali, l’accordo avrebbe dato luogo a modifiche strutturali del sistema giuridico e finanziario filippino e avrebbe consegnato ai leader del Bangsamoro più poteri politici ed economici, chiedendo loro di impegnarsi maggiormente nel rispondere alle esigenze delle povere comunità. Una re-distribuzione più equa delle abbondanti risorse naturali presenti nella regione (soprattutto miniere d’oro) ridarebbe più stabilità e maggiore serenità a quelle società che in tutti questi anni di guerriglia hanno subito continui attacchi da parte di gruppi armati e rapimenti a fondo di estorsione.
La fine del conflitto con i ribelli islamici rappresenta anche una grande opportunità economica per il Paese che potrà in futuro godere degli investimenti stranieri e contare su una ripresa che dovrà sostenere le decine di milioni di filippini che vivono in povertà. Il Paese, malgrado una crescita media annuale del 5,8%, è ancora fortemente dipendente dalle enormi rimesse dei lavoratori espatriati.
Natura e storia del conflitto
Anche se spesso descritto in termini religiosi, gli analisti concordano sulla natura etnico-culturale del conflitto durato quattro decenni. Ghadzali Jaafar, vice-presidente per gli affari politici del MILF, rivendica ancora l’essenza di una lotta per mantenere l’identità culturale del territorio della comunità Bangsmoro, più che una guerra di religione.
L’obiettivo perseguito durante il conflitto, come spiega Jaafar, non è stato quello di separarsi dallo Stato, né quello di recuperare le altre zone a minoranza musulmana sparse a sud, ma quello di farsi riconoscere dal governo il diritto di autodeterminazione, rifacendosi all’esempio di Hong Kong dalla Cina. I respingimenti dei piani proposti dal governo negli anni passati confermerebbero perciò un cambio di programma rispetto alle rivendicazioni iniziali operate dai ribelli, anche a seguito dell’infruttuoso decennale tentativo di ottenimento di uno Stato completamente separato dalle Filippine. Infatti i piani e tutte le dichiarazioni di apertura proposti dal governo non rispettavano pienamente le richieste dei ribelli e non concedevano loro una sufficiente autonomia [BBC.co.uk].
Con molta probabilità, il rischio di un’eccessiva radicalizzazione islamista della regione ha posto i dirigenti del MILF a considerare l’autonomia come strada maestra piuttosto che combattere per l’indipendenza. “Il MILF – come spiega padre Calvo, missionario clarettiano da quarant’anni nelle Filippine – rappresenta solo una parte del panorama estremista islamico che insanguina Mindanao dal 1972. Fra essi infatti vi sono fazioni più violente ostinati ad ottenere la piena indipendenza della regione” [AsiaNews.it].
Il disegno di una nuova regione autonoma era già nato nel 1989 con la Regione Autonoma del Mindanao Musulmano o Autonmous Region of Muslim Mindanao (ARMM), ma descritto dallo stesso Aquino come un “esperimento fallimentare” [Gmanetwork.com] poiché non è riuscito a fermare le violenze e ha permesso alle famiglie più potenti di arricchirsi sempre di più.
Nel 1996 il governo aveva istituito una regione semi-autonoma, ma anche questa non era riuscita a fermare i combattimenti, né a placare le preoccupazioni della popolazione sotto assedio.
Nell’agosto del 2008, dopo undici anni di negoziati, il governo aveva accettato i confini di una regione autonoma musulmana, con grande soddisfazione da parte di tutte le parti, arrivate al punto di firmare un accordo; ma l’accusa di alcuni gruppi locali cattolici che lamentavano una mancata consultazione delle loro posizioni, aveva portato la Corte Suprema ad intervenire, bloccando l’intesa. In poche settimane il conflitto era ripreso provocando nel giro di un anno la fuga di circa 300.000 civili. A distanza di anni, molti di loro non sono ancora tornati nelle loro case.
Lo scenario
L’arcipelago delle Filippine è costituito da più di 7.000 isole, con una popolazione di circa 95 milioni di abitanti. Il sud del Paese ha una lunga storia di conflitti tra diversi gruppi armati attivi soprattutto nelle isole Mindanao e Basilan e nella municipalità di Jolo (nell’estremo sud): separatisti musulmani, comunisti, miliziani di clan locali e gruppi criminali, rappresentando una grave minaccia per la stabilità del Paese.
Le principali fazioni ribelli possono essere considerate: il Moro Islamic Liberation Front e il Moro National Liberation Front. Il MILF è il partito combattente islamico delle Filippine; una milizia armata il cui obiettivo dichiarato è sempre stato, come suggerisce il nome, la creazione di uno Stato-nazione indipendente per l’etnia Moro, autoctona del Paese. Il gruppo è nato da una frattura interna al Moro National Liberation Front (MNLF) che raccoglieva in precedenza attorno a sé tutta l’insorgenza islamica nel Paese. La scissione avvenne a fine an
ni ’70, a causa del dissidio interno alla leadership creatosi dopo gli accordi di pace del 1976.
Oltre a questi sono da annoverare diversi gruppi separatisti islamici: il New People Army o Nuovo Esercito del Popolo (NPA), l’esercito rivoluzionario nato nel 1969 sotto l’assoluta direzione del Partito Comunista delle Filippine; il gruppo Abu Sayyaf, movimento radicale islamico, nato negli anni ’90, conosciuto anche come al-Harakat al-Islamiyya (Movimento Islamico) vicino ad al-Qaeda e il recente Bangsamoro Islamic Freedom Fighters (BIFF), gruppo creato nel 2011 da ex membri del MILF non allineati.
Conclusioni: l’accordo tra luci e ombre
Il documento segna la nascita della nuova regione autonoma di Bangsamoro e dà il via ai dialoghi di pace con il MILF. L’accordo è “storico” perché ha più sostegno politico rispetto agli accordi precedenti; garantisce soprattutto i diritti e il futuro del popolo Bangsamoro e conserva, al tempo stesso, la sovranità e la costituzione della Repubblica delle Filippine che manterrà il potere in materia di difesa e sicurezza nazionale, nonché la gestione della politica estera ed economica.
Nel testo si legge che le parti si impegnano a raggiungere un “accordo totale” entro la fine dell’anno.
“Questo accordo quadro apre la strada per una pace definitiva e duratura nel Mindanao”, ha affermato Aquino nel suo discorso ufficiale a Manila, che ha aggiunto: “Il lavoro non finisce qui; ci sono ancora alcuni dettagli sui i quali entrambe le parti devono lavorare per trovare un compromesso”. [BBC.co.uk] Nell’immediato, l’accordo prevede la creazione di un Comitato provvisorio per gestire la fase di transizione che dovrà supervisionare cinque province, tre città e sei comuni che faranno parte della regione autonoma.
Il documento è stato però boicottato da diversi gruppi islamici contrari alla semplice autonomia; mentre i cattolici lamentano che nella nuova entità, a maggioranza islamica, siano incluse due città con una grande presenza di cristiani, e soprattutto temono le concessioni del governo sull’impiego della sharia. Fonti di Asia News avvertono che l’applicazione della legge islamica preoccupa la comunità cristiana e la Chiesa cattolica, che però non si è ancora pronunciata in via ufficiale.
Nonostante l’accordo, il Paese deve quindi affrontare, da un lato, le reali intenzioni da ambo le parti a garantire la pace e lo sviluppo per la minoranza musulmana; dall’altro, per pacificare completamente l’arcipelago filippino dovrà ancora risolvere la questione dei guerriglieri separatisti determinati nella loro battaglia di indipendenza di un nuovo Stato islamico.
Appronfondimenti
http://pcdspo.gov.ph/downloads/2012/10/GPH-MILF-Framework-Agreement-10062012.pdf
Myanmar: è democrazia senza i diritti delle minoranze razziali?
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 19 marzo 2013
Il processo di riforme avviato dal governo birmano del generale Thein Sein, e tra queste la legalizzazione della LND, la promessa di elezioni politiche, l’impegno di scarcerazione di tutti i prigionieri politici e l’allentamento della censura, sembrava aver dato forti segnali di cambiamento che facevano sperare nella democratizzazione del Myanmar (ex Birmania).
Il Paese però sembrerebbe essere lontano da un radicale cambio di regime: se le scorse elezioni legislative hanno segnato la fine della dittatura militare e inaugurato “un’era di transizione” per portare il Paese alla democrazia, il segnale sembrerebbe non essere bastato: il governo infatti si ritrova ancora oggi con i protagonisti dell’antica giunta militare che hanno la maggioranza parlamentare, garantita da una clausola della Costituzione che assegna loro il 25% dei seggi, con un presidente che è l’ex dittatore e un’opposizione rappresentata dalla leader del movimento democratico, Aung San Suu Kyi, quest’ultima al seggio in Parlamento in seguito alle elezioni legislative del 2012, dopo più di 15 anni trascorsi agli arresti domiciliari.
Nonostante le promesse di apertura alle riforme democratiche, le speranze e i dubbi sul futuro del processo democratico attraverserebbero ancora oggi la società birmana. Persistono le critiche nei confronti della mancata liberazione di decine di prigionieri politici da parte del governo accusato dall’ONG Associazione per i Popoli Minacciati (APM) di ambiguità nei confronti dell’opinione pubblica internazionale; della mancata libertà di stampa e di informazione (la stessa Suu Kyi, ha fatto sapere a Radio Free Asia che le autorità avrebbero censurato parte di un suo discorso per la televisione di Stato durante la campagna elettorale in cui accusava la precedente giunta di abuso di potere). Inoltre persistono le polemiche che riguardano i conflitti etnico-religiosi e le critiche nei confronti delle persecuzioni di alcune minoranze razziali.
I conflitti etnico-religiosi
Nello Stato di Rakhine, nel nord-ovest del Paese, l’ONU parla di aggressioni e di violenze indiscriminate da parte della comunità buddista di etnia Rakhine nei confronti della minoranza musulmana di etnia Rohingya, a cui viene tuttora negato il riconoscimento della cittadinanza birmana. Un diritto negato nonostante la comunità viva da tre generazioni e conti circa 800 mila persone nell’intero Myanmar. Per il governo birmano, i musulmani, la cui situazione è salita alla ribalta delle cronache internazionali, sarebbero immigrati irregolari provenienti da nord-ovest, dal vicino Bangladesh.
La difficile convivenza tra buddisti e musulmani si è scatenata in violenza lo scorso giugno 2012, provocando la morte di 180 persone e oltre 110.000 profughi. Oggi i musulmani Rohingya detti “boat people” ovvero i migranti via mare, non potendo più contare sul loro futuro nel loro Paese, sarebbero scappati dalle proprie case, chi cercando rifugio nei campi profughi in condizioni di ristrettezze di cibo ed acqua, chi tentando la fuga verso la lontana Malaysia, paese musulmano raggiungibile per mare.
I musulmani sarebbero visti come invasori e colonizzatori della cultura birmana e i buddisti si sentirebbero minacciati da loro e dalle loro tradizioni come quella della macellazione della carne di tipo halal, gesto che offenderebbe i fedeli di Buddha e porterebbe il Paese, secondo U Oo Hla Saw, segretario generale del Partito dello sviluppo del Rakhine, ad un elevato rischio d’islamizzazione del Paese. Immediata la risposta dei musulmani in Parlamento che chiedono di agire per garantire la sopravvivenza dei fedeli e la critica sollevata dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) che teme un ulteriore esodo verso i paesi confinanti.
Preoccupazioni espresse anche da parte delle organizzazioni non governative, come Amnesty International e dalle agenzie ONU per i diritti umani. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione non vincolante che esprime timore per gli scontri etnico-religiosi in Myanmar e chiede al governo di agire per migliorare la situazione dei musulmani Rohingya, esortandolo “a proteggere tutti i diritti dei musulmani, compreso il diritto di cittadinanza”. Il governo birmano però non avrebbe gradito questa risoluzione in quanto conterrebbe “supposizioni non veritiere e non verificate” nonostante le violenze in corso dallo scorso giugno 2012, rifiutando il termine “minoranza” riferito ai musulmani in quanto per la legge locale non verrebbero considerati come gruppo etnico a sé stante.
Intanto da Strasburgo, anche il Parlamento europeo si fa sentire sulla tragica vicenda del gruppo etnico Rohingya, adottando il 13 settembre 2012 una Risoluzione sulla persecuzione dei musulmani e in particolare sul persistere della violenza nello Stato di Rakhine.
La guerra ai Kachin e agli Shan
L’offensiva dei militari ai danni dello Stato federale di Kachin, al confine con la Cina, è partita nel giugno 2011 con la fine di una tregua durata più di un decennio, provocando migliaia di vittime e centinaia di migliaia di sfollati in fuga verso la Cina, con l’obiettivo di impedire la costruzione di una base militare dell’esercito Kachin a Laiza.
L’ammissione dei bombardamenti aerei da parte dell’esercito birmano sembra giustificare un’azione di difesa dell’aviazione nei confronti di un popolo, i Kachin, dotato di un esercito proprio, i Kachin Indipendence Army (Kia) e di un territorio interessato dalla costruzione della discussa diga di Myitsone sul fiume Irrawaddy, un progetto congiunto fra il Ministero birmano dell’industria, Asia World e la China Power Investment Corporation, gigante cinese dell’energia che oltre al Myanmar, dovrebbe rifornire anche la provincia cinese dello Yunnan.
Il progetto però avrebbe scatenato le ire dei Kachin, contrari alla nascita dell’impianto, perché causa dello spostamento forzato di 15mila abitanti. Non diversamente va con gli Shan, un gruppo etnico che prende il nome dallo Stato Shan, a est del Paese al confine con Cina, Laos e Thailandia, coinvolti nell’offensiva contro i Kachin. Il movimento dei ribelli Shan State Army-South (SSA-S) ha recentemente dichiarato, tramite il Democratic Voice of Burma, l’emittente radio-televisiva per l’informazione indipendente, che forze governative avrebbero invaso il territorio dello Stato Shan, non rispettando il cessate-il-fuoco siglato nel novembre 2011 dal governo centrale, l’opposizione e da tutti i gruppi etnici, tra cui gli stessi Shan. Inoltre denunciano che da quando è stato firmato l’accordo, sarebbero stati registrati oltre 50 scontri nel proprio territorio.
Conclusioni: una democrazia immatura
Lo storico passaggio politico-istituzionale del Myanmar, da regime militare che controllava il paese e l’economia fin dal 1988 ad un governo democratico nel 2011, ha incoraggiato l’economia del Paese che ha cominciato a registrare buoni tassi di crescita e un consistente afflusso di investimenti stranieri attirati dalla disponibilità sia di manodopera a prezzi convenienti sia di risorse naturali generose.
Le ombre rappresentate dalla repressione contro alcune delle minoranze del Paese, tuttavia, minacciano la credibilità ottenuta con le elezioni legislative del 2010: secondo alcune fonti, sarebbe evidente l’interesse dei militari a fomentare gli scontri armati e il loro offrirsi come unica soluzione agli scontri armati che loro stessi creerebbero, assecondando ataviche rivalità etniche, come nel caso della comunità apolide dei Rohingya, considerata dall’ONU una delle più perseguitate al mondo.
Secondo Meridiani Relazioni Internazionali, il più grande “miracolo democratico” rappresentato dal Myanmar, sarebbe da ricondurre a
un’operazione di immagine funzionale al miglioramento della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Cina. Quest’ultima avrebbe interesse nell’equilibrio interno al Myanmar sia per questioni legate alla sicurezza pubblica (la riduzione della conflittualità condotta contro i gruppi ribelli avrebbe l’effetto di placare i disagi creati dal flusso migratorio di migliaia di profughi birmani riversati nelle aree di confine cinese) e alla sicurezza energetica (il passaggio di oleodotti dal territorio birmano faciliterebbe e abbrevierebbe l’approvvigionamento di greggio dal Medio Oriente e dall’Africa. La stessa importanza ricoprirebbero gli investimenti cinesi sul territorio birmano soprattutto nel settore energetico e delle infrastrutture).
L’evoluzione politica del Myanmar piace anche agli USA, sia perché si tratta di una dittatura in meno, sia perché l’apertura del mercato birmano ha spianato la strada anche a molte aziende statunitensi. Tutto questo avverrebbe con la sostanziale complicità degli Stati Uniti e sul consenso dell’opposizione “democratica” la quale sembrerebbe non essersi pronunciata in merito al tema complesso delle minoranze perseguitate, come quello dei Rohingya. Sull’argomento, Aung San Suu Kyi si sarebbe limitata a proporre il sistema di federazione delle minoranze proposto dal padre, che fu presidente prima del colpo di Stato dei militari del 62’, dimostrandosi patriottica e in linea alla maggioranza del Paese.
San Suu Kyi in una breve dichiarazione alla stampa durante la visita ufficiale del Presidente Obama dello scorso novembre, la prima di un presidente americano in carica nel Paese asiatico, ha invitato tutti alla prudenza, ricordando che “Il momento più difficile in una fase transizione è quando il successo è in vista” senza essere ingannati dal “miraggio del successo”.
L’Associazione per i Popoli Minacciati ha approfittato dell’attenzione mediatica che ha investito il Paese con la visita di Obama per auspicare una reale democratizzazione della politica birmana, anche nei confronti di tutte le minoranze del paese. APM si è anche appellata al presidente statunitense affinché durante la sua visita chieda il riconoscimento e il conferimento della cittadinanza birmana per i Rohingya perseguitati. Il suggerimento non è sfuggito al presidente Obama che aveva pubblicamente riconosciuto il “ruolo chiave” di San Suu Kyi per il “futuro del suo Paese”, invitando il Paese adesso ad un ulteriore e decisiva svolta democratica e rivolgendo un appello solenne affinché si fermino al più presto le violenze inter-etniche.
Malaysia: il ruolo delle donne in politica
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 30 aprile 2013
Qual è il ruolo della donna in politica, in Malesia? Quale in una società odierna attraversata da forti cambiamenti e alla luce dell’insediamento di altre culture, cinese ed indiana, che hanno portato la Malesia a diventare una società multietnica? Lo status della donna malese al centro della discussione; la partecipazione femminile nel mondo politico e il suo contributo alla crescita e allo sviluppo economico in uno Stato musulmano considerato “progressista”, tra i più tolleranti dei Paesi asiatici e al tempo stesso legato alla propria tradizione culturale e religiosa dai caratteri ancora propriamente maschilisti dove le figure maschili che si alternano nella vita di una donna – il padre prima ed il marito poi – sono ancora il perno della società malese.
Nell’area asiatico-pacifica, la rappresentanza politica delle donne è in media circa il 18%, ben al di sotto della media mondiale. In Malesia, stando alle ultime elezioni generali del 2008, la rappresentanza delle donne è del 10%, il secondo dato più basso dell’intera regione. [Asiafoundation.org]
Nonostante un’elevata presenza femminile nei partiti politici, il tasso di donne elette nel Parlamento malese o nominate in rappresentanza di un partito politico, risulterebbe ancora molto basso rispetto ad altri standard asiatici.
Stupisce pensare che ancora oggi, i principali partiti politici malesi, in vista delle imminenti elezioni politiche previste nel mese di maggio 2013, continuino a non riservare un’adeguata attenzione alla componente femminile sia in termini di candidati donna all’interno della propria formazione, sia semplicemente in termini di attrazione di un largo bacino di voti rappresentato dalla popolazione femminile malese (il 49% dei 13,3 mln dell’elettorato malese).
Gli analisti scommettono infatti che l’esito delle prossime elezioni, tra coalizione del Barisan Nasional (BN) al potere e l’alleanza del Pakatan Rakyat (PR) all’opposizione, potrebbe decidersi sul voto degli “indecisi”, costituito in gran parte dal voto delle donne.
Se la rappresentanza parlamentare delle donne malesi rimane molto bassa, gli ambienti nel mondo degli affari sono altrettanto avversi nei loro confronti. The Asia Foundation, un’organizzazione non governativa impegnata nello sviluppo socio-economico e culturale dell’area Asia e Pacifico, collaborando con il Dipartimento di Stato degli USA e con l’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC), ha indagato e affrontato le barriere che impediscono ad una donna di affermarsi come lavoratrice dipendente e come imprenditrice di un’azienda, in Paesi come Malesia, Filippine e Tailandia, fornendo una vasta gamma di strumenti a loro disposizione, come la costituzione di un network, l’accesso alle informazioni, la facilitazione al credito e la formazione professionale.
In occasione del secondo vertice “Women and the Economy Forum” organizzato dall’APEC a San Pietroburgo, lo scorso giugno 2012, il segretario di Stato americano Hillary Clinton in un suo discorso aveva sottolineato: “Limitare il potenziale economico delle donne è per ogni Paese come lasciare i soldi sul tavolo” e poi ancora: “Nessuna nazione può raggiungere il livello di crescita che vuole raggiungere se esclude la metà della sua popolazione (femminile, ndr.)” [Asiafoundation.org]
Secondo le stime delle Nazioni Unite, infatti, l’intera economia dell’area asiatico-pacifica guadagnerebbe ogni anno 89 mld di dollari se le donne fossero messe nelle condizioni di esprimere a pieno le proprie potenzialità, ma incontrano tuttavia ostacoli che impediscono loro di raggiungere questi risultati. [UN.org]
Gli ostacoli culturali
Di quali ostacoli si tratta? Secondo un rapporto 2012 redatto dal Social Science Council Research (SSRC), la rappresentanza politica femminile nella regione è influenzata da fattori culturali e religiosi e da stereotipi di genere sul ruolo delle donne che non trovano spazio in politica ma anzi incontrano le resistenze (a volte anche violente) alla loro partecipazione attiva alla vita pubblica, all’accesso di risorse (economiche e informatiche) e alle sfide da affrontare quotidianamente, senza venir meno ai doveri e alle responsabilità domestiche e familiari e al loro impegno all’interno della comunità. [Ssrc.org]
Altri fattori di democratizzazione e di modernizzazione del Paese, ad esempio elevati livelli d’istruzione (sebbene la Malesia detenga un numero altissimo di donne laureate: per ogni 10 uomini laureati ci sono 13 donne), non garantirebbero da sé una reale partecipazione del mondo femminile in politica. Inoltre il pregiudizio legato alla sfera politica, vista come una vera e propria “impresa a gestione familiare”, è ancora molto forte: la presenza di mogli, figlie, sorelle di politici o di ex-dirigenti politici impedirebbe l’accesso al Parlamento di semplici donne qualificate. La casta politica, garantita dal legame di parentela, rimarrebbe quindi una questione elitaria.
Secondo Michele Bachelet, capo di UN Women, sono necessarie nuove misure speciali. La metà di tutti i paesi del mondo negli ultimi vent’anni avrebbe messo in atto il processo delle “quote elettorali” (o “quote rosa”) ovvero la richiesta di quote minime di presenza femminile all’interno degli organi politici istituzionali con bassa percentuale femminile. [unwomen.org]
Dei 33 Paesi che hanno raggiunto il 30 per cento della rappresentanza delle donne (considerata la percentuale minima di massa critica), 28 hanno tagliato il traguardo grazie all’implementazione di quote di genere. Nel 2011, il primo ministro malese Najib ha annunciato che la Malesia avrebbe raggiunto il 30 per cento della rappresentanza femminile nei consigli aziendali nei successivi cinque anni; la quota tuttavia non sembrerebbe essere stata fissata anche per la rappresentanza politica.
Per queste ragioni, l’alleanza di opposizione Pakatan Rakyat, in vista delle prossime elezioni 2013, ha promesso di nominare dieci ministri donna se la formazione sarà eletta al governo, nonostante la difficoltà nel reperire candidati di sesso femminile dovute proprio al pregiudizio legato alla partecipazione femminile alla vita politica. Molte donne malesi non gradirebbero immischiarsi negli ambienti politici perché moralmente poco favorevoli alle donne e preferirebbero perciò non esporsi o candidarsi, almeno fino a quando il Paese non sarà in grado di colmare il divario di genere a livello sia politico, sia economico, per realizzare finalmente lo sviluppo del Paese.
Conclusioni
La Malesia, sebbene si dimostri aperto e tollerante al mondo occidentale, cela al suo interno forti contraddizioni dove la modernità e il lusso della sua capitale federale, Kuala Lumpur, familiari ai turisti di tutto il mondo, si mescolano ai valori tradizionali e a un sentito misticismo spirituale orientale, sacro ai malesi.
Le differenti religioni e culture che oggi coesistono nel Paese, rappresentano l’apertura e la disponibilità al dialogo e porterebbero con sé molti aspetti positivi. Tuttavia gli schemi socioculturali e religiosi attorno al ruolo di supremazia dell’uomo nella società e nella famiglia, impediscono una visione più approfondita della funzione e dell’importanza della figura femminile non solo all’interno della società ma anche nella sfera pubblica.
Lo stereotipo del ruolo maschile conserva intatta la sua posizione protezionista e patriarcale nei confronti della figura femminile, esposta a frequenti casi di discriminazione: vedi i casi di donne-lavoratrici costrette a rimettere i loro salari nelle tasche del marito, private dell’autonomia nella gestione dei loro risparmi, costrette a lasciare il proprio lavoro qualora il marito lo decida o talvolta soggette, nei peggiori casi, a violenza domestica di natura sia fisica si
a psicologica. Se per l’uomo malese, la funzione della donna, relegata alla sfera coniugale e domestica è ancora molto importante, la sussistenza economica della famiglia non può non prescindere unicamente dal lavoro dell’uomo.
Nonostante queste barriere oggettive, una nuova visione accompagnata da azioni concrete all’interno della casa e della famiglia (l’aiuto nelle faccende domestiche e nell’educazione dei figli) sta nascendo tra le generazioni malesi di oggi, propense a un nuovo ruolo di parti attive che sgrava le donne e permette loro di concentrarsi maggiormente sul lavoro e sulla gratificazione personale. Inoltre massicce campagne e azioni di sensibilizzazione da parte della società civile e incentivi fondamentali messi oggi a disposizione dal Governo malese assieme ad interventi mirati a favore delle quote rose, permetterebbero sempre a più donne di partecipare e contribuire alla crescita dell’economia del Paese.
Per rompere vincoli e superare barriere così fortemente radicate, non basta contare solo sullo strumento dell’istruzione, ma è necessario il supporto culturale dell’uomo e dello Stato nel faticoso processo di trasformazione sociale ed economica per ridefinire la posizione della donna all’interno della società: tra questi rientrerebbero cambiamenti di abitudini/attitudini in ambito familiare, l’introduzione di nuove tecnologie che permettono di misurarsi col mondo esterno, come l’uso di internet e dei social network, l’introduzione di nuovi farmaci (l’utilizzo della pillola contraccettiva), la riduzione della discriminazione di genere sul posto di lavoro, l’introduzione della legge sul divorzio, la nascita di strutture e servizi appositamente dedicate alla cura ed assistenza dei bimbi (asili, babysitting ecc).
In questa maniera e trasmettendo alle donne un nuovo senso di responsabilità che va oltre la scelta personale, il Governo, le Istituzioni scolastiche e insieme la società civile malese potranno favorire una reale emancipazione della donna e finalmente consentire un facile accesso alla sfera pubblica politica affinché non solo le donne (e gli uomini), ma anche tutta la società e la stessa Malesia possano beneficiarne.
[Monica Simioni, tesi di laurea “Partecipazione femminile al mondo del lavoro in Malesia – Facoltà di Scienze Statistiche – Università degli Studi di Padova]
Uganda: a situational analysis of Health in North Uganda
di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 11 giugno 2014
Winston Churchill once stated that “Uganda is the pearl of Africa” in reference to the country’s striking natural beauty, climate, and variety of rich landscapes. Unfortunately, the country currently ranks 161th out of 187 countries analysed according to the Uganda Bureau of Statistics, UNDP Human Development Index 2011. This is due to a lack of basic infrastructure such as running water, electricity, waste management, health care, and education. Since 80 percent of the nation’s workforce is employed in the agricultural sector, changes in the climate and the HIV/AIDS epidemic are having devastating effects. As a result, many Ugandans are forced even deeper into poverty.
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