L’ultimo miliardo – Perché i Paesi più poveri diventano sempre più poveri (book review)

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 22 novembre 2012

 

Siamo stati abituati a ragionare su un’umanità divisa in un miliardo di ricchi e cinque miliardi di poveri, ma questa è la sintesi di una concezione superata. Il Terzo Mondo, in realtà, si è rimpicciolito. La maggior parte di quei cinque miliardi di persone, circa l’80% della popolazione mondiale, vive in Paesi in fase di crescita e ha già imboccato la strada giusta verso lo sviluppo. La vera sfida invece è costituita dalla presenza di un ultimo miliardo di persone rimaste inchiodate al fondo. “Dobbiamo – perciò – imparare a invertire le cifre”.

L’ultimo miliardo si concentra in almeno 58 Stati, quasi tutti in Africa e in Asia Centrale, che l’autore identifica chiamandoli “Africa+”: l’insieme di quei Paesi agli ultimi gradini del sistema economico globale che si distinguono perché non seguono lo schema dello sviluppo della maggior parte dei Paesi cosiddetti emergenti. Il loro reddito è calato del 5% persino durante gli anni Novanta, considerati, con il senno di poi, come il decennio d’oro tra la fine della Guerra Fredda e l’11 settembre.

Nel 2050 – spiega l’autore – il divario di sviluppo non separerà più il miliardo di ricchi dai cinque miliardi dei Paesi in via di Sviluppo (PVS), ma l’ultimo miliardo in trappola dal resto dell’umanità, persino da Paesi come India, Cina e altri dell’Asia e dell’America Latina.

Le ragioni sono da individuarsi in quattro tipi di “trappole”: la trappola del conflitto che sposta le voci di spesa interna dal welfare agli armamenti; la trappola delle risorse naturali, dove spesso sono i contesti ricchi di materie prime ad essere devastati dall’ingordigia degli investimenti stranieri; la trappola della mancanza di accessi diretti al mare unita alla presenza di Paesi limitrofi poco inclini al fair play diplomatico; infine la trappola del cattivo governo, della corruzione e delle oligarchie.

L‘indagine di Collier fa cadere uno dopo l’altro numerosi muri mentali: dalla logica del sistema tradizionale degli aiuti gestito dalle agenzie accusate di fare del comodo “business dello sviluppo”, alla retorica della filantropia spettacolarizzata, fino ad arrivare alle teorie liberiste e ai limiti ideologici diffusi dai think tanks progressisti.

L’autore propone al contrario nuove linee di politiche d’intervento adeguate, orientate ad un nuovo approccio “trasversale” (whole-of-government approach) in grado di condurre all’eliminazione vera e urgente della povertà, rivolgendosi direttamente ai governi che costituiscono il G8, invitandoli a mantenere alta la guardia su “Africa+” e dettandone con intelligente ambizione l’agenda operativa.

 

Scheda tecnica:

Titolo: L’ultimo miliardo
Sottotitolo: Perché i Paesi più poveri diventano sempre più poveri e cosa si può fare per aiutarli
Autore: Paul Collier
Editore: Editori Laterza
Anno di pubblicazione: 2009 per la collana Economica Laterza
Titolo dell’edizione originale: The Bottom Billion. Why the poorest countries are failing and what can be done about it – Oxford University Press, New York Oxford – Paul Collier – 2007

Il Giappone un anno dopo lo tsunami, tra difficoltà economiche e problemi sociali

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 29 novembre 2012

 

Le prospettive di ripresa economica in Giappone si stanno lentamente consolidando. A indicarlo è lo stesso governo di Tokyo, che motiva il ritrovato ottimismo con i segnali rassicuranti che giungono da Stati Uniti ed Europa. Il classico rituale delle preghiere, particolarmente sentito e seguito dai media, che si è svolto all’inizio del nuovo anno in tutto il Giappone per propiziare un 2012 migliore dell’anno precedente, sta funzionando. La serenità purtroppo è offuscata da una grave piaga sociale nazionale che è andata sviluppandosi nel corso degli anni Novanta e che tuttora desta forti preoccupazioni nei governi in carica: il Giappone è, infatti, tra i Paesi con il più alto tasso annuo di morti suicide al mondo.

L’economia giapponese è in ripresa

Dopo un periodo davvero nero per l’economia giapponese e per il mercato mondiale, in seguito al disastro causato dal terremoto del 2011 e alla devastazione di Fukushima, i dati economici degli ultimi mesi appaiono incoraggianti. Il trend ha iniziato ad invertirsi all’inizio del nuovo anno rispetto al precedente e l’intera economia ha dato segni positivi andando oltre le previsioni. Secondo fonti ASCA, gli ordini per il settore manifatturiero e i consumi privati, che pesano circa per il 60% nell’economia giapponese, sono cresciuti rispetto al 2011: +1,2% nei primi tre mesi del 2012 e in leggera flessione nel secondo trimestre con un +0,1%.

Intanto la notizia diffusa dalla Cooperativa per la Pesca della Prefettura di Fukushima parla di ripresa delle vendite del pesce proveniente da Fukushima già dal mese di maggio 2012. La notizia è incoraggiante e aumenta le speranze di miglioramento di ripresa economica della regione. Secondo quanto emerso dalle autorità sanitarie del Giappone, che hanno effettuato severissimi controlli sulle acque e sulla fauna marina della regione, le specie in vendita hanno superato rigorosi test per accertare l’assenza di tracce rilevabili di cesio radioattivo, sebbene l’intero mercato ittico rimanga sempre in allerta per il timore di contaminazioni delle acque del mare in prossimità della centrale, come evidenziato dal Ministero giapponese della Pubblica Istruzione, Cultura, Sport, Scienza e Tecnologia (MEXT).

Tutta l’economia del Sol Levante è in graduale ripresa, trainata dal sostegno ai progetti di ricostruzione delle aree della costa nordorientale devastate dal terremoto e dallo tsunami dell’anno scorso marzo 2011 che ha provocato oltre 15000 morti e circa 3500 dispersi [dati della Croce Rossa Internazionale] con conseguenze notevoli sull’assetto economico-finanziario del Paese. ll sisma, inoltre, ha provocato il blocco della produzione (in seguito alla quale alcune compagnie di marchi tecnologici e case produttrici di auto sospesero la produzione negli stabilimenti giapponesi) e lo spegnimento automatico di undici centrali nucleari da parte dei sistemi di emergenza con il rischio di fuoriuscita di materiale radioattivo da alcuni reattori.

Nel frattempo sul fronte monetario, lo Yen, la valuta nazionale giapponese, ha conosciuto un notevole rafforzamento come non si registrava da diverso tempo. Se da un lato questo rappresenta un fattore positivo, dall’altro rischia di compromettere le esportazioni nipponiche. Per questi motivi il Giappone ha deciso di puntare alla sua ripresa economica con una politica monetaria più espansiva.

Una manovra economica di tipo espansiva

Dopo la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, anche la Banca del Giappone ha immesso nuova liquidità nel suo sistema bancario e ha annunciato l’implementazione di un maxi piano sui titoli di stato, programma pensato per ridare fiato all’attività economica, con ulteriori acquisizioni per altri 10.000 mld di yen, pari a circa 94 mld di euro. Il governatore Masaaki Shirakawa ha sottolineato l’importanza della manovra dell’allentamento monetario (o easy money) che tende ad aumentare la liquidità del sistema economico abbassando i tassi di interessi ufficiali, auspicando che la svalutazione della moneta possa accelerare il risanamento dei conti pubblici giapponesi, frenare la deflazione (cioè ridurre il livello assoluto dei prezzi), stimolare l’offerta agli investimenti esteri e rilanciare finalmente l’esportazione e la competitività internazionale del Paese.

L’istituto centrale nipponico ha infatti annunciato una massiccia iniezione di liquidità, il cui obiettivo è quello di rilanciare l’economia nel Sol Levante con immediati effetti sia sulla Borsa di Tokio, che nel 2011 aveva perso il 17% mentre lo scorso gennaio 2012 aveva riaperto con un promettente segno positivo, sia sulla crescita reale del PIL.

Tuttavia, secondo i dati forniti dal governo nipponico il PIL nel secondo trimestre del 2012 ha registrato solo una crescita dello 0,3%, ben al di sotto delle attese rispetto ai primi tre mesi, quando il Prodotto interno lordo era cresciuto dell’1,3%. Inoltre su base annua, il PIL ha mostrato nel secondo trimestre una crescita dell’1,4%, rispetto a una previsione di incremento del 2,7% e contro un rialzo del 5,5% del primo trimestre. La causa di tutto ciò è da ricercarsi nel forte rallentamento delle esportazioni e al massiccio incremento della spesa pubblica dettati dalla riparazione dei danni provocati dal terremoto dello scorso anno. La brusca frenata dell’export, soprattutto verso Cina, Europa e Stati Uniti, fa segnare a settembre 2012 un deficit commerciale di 558,6 mld di yen (5,6 mld di euro circa) e accusa una situazione economica globale non semplice, dovuta principalmente alla crisi del debito nell’Eurozona e dal forte indebolimento dell’Euro sui mercati mondiali.

Ad ogni modo la situazione economico-finanziaria del Paese, come già evidenziato, sembra si stia risollevando, seppur con fatica. Ma le notevoli difficoltà sociali mostrano un quadro complessivo preoccupante che sta impressionando l’opinione pubblica nazionale ed internazionale. In un momento economico così problematico e cruciale come quello odierno, non sorprende parlare di un fenomeno allarmante come quello dei suicidi tra la popolazione che in Giappone è un male molto profondo e non certo slegato dalla crisi economica in atto.

Il paradosso del suicidio: una triste piaga nazionale

Una mappa del 2011, secondo un confronto dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO) [vedi immagine], dimostra come in Giappone il tasso di suicidio abbia raggiunto un livello tra i più alti al mondo. Il pericolo maggiore viene soprattutto dalle zone colpite dal terremoto e dal maremoto del marzo 2011. Le autorità nipponiche hanno reso noto un rapporto ufficiale che studia l’andamento del fenomeno suicidi: i dati rimangono molto preoccupanti e dicono che anche nel 2011 si è superata la soglia dei 30000 suicidi in un anno (30651).

Yukio Hatoyama, diventato Primo Ministro nel 2009, aveva deliberatamente proposto di arginare questo triste fenomeno, ma leggi, provvedimenti ed interventi di vario genere non hanno avuto effetti rilevanti. Quando nel 2011 è avvenuto il disastro di Fukushima, le autorità denunciarono un picco di suicidi tra aprile e giugno a causa della fortissima pressione subita dalla gente dopo questa tragedia. La crisi economica scatenata dallo tsunami e dall’incidente nucleare scoraggiò moltissime persone di tutte le fasce d’età.

Non a caso, tra le motivazioni generali che spingono solitamente al gesto spiccano il licenziamento e la disoccupazione conseguenti alla forte recessione economica giapponese degli anni ’90 e all’attuale crisi economica post-tsunami. Sono da annoverare anche la depressione, i problemi sociali e di salute di varia natura e la mancanza di comunicazione con i famigliari.

Di particolare preoccupazione è l’alto numero di suicidi tra i giovani che arrivano al gesto per la mancanza di valori, l’assenza di fiducia nel futuro e il fenomeno del bullismo. Nell’ambito scolastico infatti, il 2011 ha registrato il livello record di suicidi. Un rapporto del Ministero dell’Istruzione rivela che 200 studenti di elementari, medie e superiori si sono tolti la vita, ovvero il numero più alto registrato in 25 anni. L’anno precedente, 2010, i suicidi erano stati 44. Ancora una volta, tra le cause principali, c’è il bullismo.

Tuttavia secondo la polizia sono molti di più. E’ difficile poter accertare un numero esatto di suicidi tra o i casi di mobbing riconosciuti. Ad esempio, l’Agenzia nazionale di polizia ha riferito che i suicidi tra gli studenti nel 2011 sono stati 353, 153 in più rispetto alle stime del Ministero dell’Istruzione che probabilmente non ha tenuto conto dei casi non segnalati dalla polizia o non rivelati dalle stesse famiglie. Inoltre è difficile individuare il fenomeno stesso del bullismo che sempre più si avvale oggi della tecnologia e dei suoi mezzi come Internet e i telefoni cellulari, per espandersi.

E’ un problema sociale molto sentito e le autorità giapponesi faticano a trovare una soluzione, ma quello che si deve affrontare oggi in Giappone è la morte causata dall’alienazione dal mondo: il “kodokushi” ovvero le morti solitarie. “E’ il suicidio delle relazioni interpersonali, il fallimento totale della società, dei rapporti con gli altri. Quando viene meno la socializzazione vuol dire che qualcosa non va nel sistema, nella comunità intera e nei suoi modelli socio-culturali”. E’ questa l’analisi del Professor Maurizio Pompili, psichiatra, responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio dell’Ospedale S. Andrea di Roma-Università La Sapienza e relatore intervenuto alla Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio promossa dall’International Association for Suicide Prevention (IASP) e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, celebrata a Roma il 10 e l’11 settembre 2012.

Conclusioni

Probabilmente mancano psicologi nelle scuole e strutture adeguate al problema. Sicuramente un fattore condizionante da non trascurare è da ricercare nella società giapponese e nella tradizione culturale che ha sempre fatto del senso dell’onore uno degli elementi fondamentali della società nipponica. Il fenomeno suicida non è da intendersi accettato dalla società senza preoccupazione; al tempo stesso, però, non è mai stato condannato apertamente e moralmente dalla società (né dalle sue religioni, a differenza del mondo occidentale cristiano) che per tradizione vede nell’atto un gesto romantico, quasi eroico e “onorevole” per lasciare questo mondo, una forma di riscatto personale.

Australia: un mito economico fra speculazione e ipotesi di rilancio

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 11 dicembre 2012

 

Il rallentamento della crescita economica dell’Australia registrato nel secondo trimestre del 2012 è espressione di un periodo storico in cui il fatidico boom delle risorse australiane nel settore minerario, che da dodici anni dal suo inizio è stato il motore che ha determinato la crescita economica del Paese, potrebbe ritenersi concluso. “Ci stiamo muovendo in una fase molto rischiosa dell’economia nazionale soprattutto nel settore minerario, ora in un momento di forte precarietà” ha detto Shane Oliver, capo economista di AMP Capital Investors.

Il mito economico australiano in bilico

Il mito australiano è legato da anni all’idea di un modello statale ideale di immigrazione ed integrazione verso cui si rivolge chi è in cerca di lavoro e guarda a questo Paese come ad una grande opportunità di realizzazione professionale e di stile di vita. L’Australia è sempre stato un polo di attrazione soprattutto per i giovani ed un Paese con una fiorente espansione economica: a differenza degli Stati dell’Eurozona, il tasso di disoccupazione in Australia nel mese di settembre 2012 è diminuito al 5,7%, dopo essersi attestato per i tre mesi precedenti al 5,8%. Da circa venti anni il Paese registra tassi di crescita sopra la media delle economie avanzate ed è caratterizzato da un elevato dinamismo economico. A partire dagli anni Ottanta, infatti, l’Australia ha saputo trasformare la sua economia da protetta e poco competitiva ad aperta e votata all’export. In pochi anni è diventata così un’economia moderna e ricercata , dominata dal settore dei servizi e, soprattutto, da quello minerario.

Ciò detto, l’Australia ora rischia di finire schiacciata nella morsa di una crisi finanziaria provocata dallo scoppio di una bolla speculativa proprio nel settore minerario, che storicamente è sempre stato un settore “boom or bust: secondo gli analisti, la dinamica riguardante la bolla degli investimenti nell’industria mineraria australiana evidenzia un ciclo economico in cui la domanda in passato ha spinto in rialzo i prezzi dei minerali, lasciando all’offerta tutto il tempo di adeguarsi. In questa fase iniziale del boom speculativo sono state ragguardevoli le operazioni avviate cui gli investitori non hanno potuto rinunciare e, sebbene siano stati in molti a sperare nella ripresa del mercato e ad auspicare ad un rientro del pericolo bolla, questi stessi investimenti potrebbero avere un impatto negativo complessivo sull’intera economia del Paese e sulla sua reale crescita.

Attualmente il tasso di crescita dell’Australia ha rallentato la sua corsa a partire dal secondo trimestre del 2012 con un conseguente calo globale della domanda delle sue risorse, l’aumento dei loro prezzi e la lenta crescita dei consumi. La crescita economica nel periodo compreso tra aprile e giugno 2012 si è attestata infatti al 3,7%, in flessione dello 0,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Anche i consumi  nazionali sono in ribasso: il tasso di vendita al dettaglio è sceso dello 0,8% nel mese di luglio 2012 rispetto al mese precedente, il calo più rilevante negli ultimi due anni. I prezzi delle materie prime, come i minerali ferrosi, sono calati negli ultimi mesi (di quasi il 30%) danneggiando gli utili delle società minerarie, costrette a mettere i loro piani di espansione in attesa, con ripercussioni sugli investimenti economici. “Le condizioni degli scambi commerciali sono diventate più difficili nell’ultimo anno (ndr. 2012)” sostiene il Ministro delle Risorse e dell’Energia, Martin Ferguson, commentando il calo del 35% dei profitti registrato dalla società BHP Billiton e il ritardo nel piano di espansione della miniera di uranio di Olympic Dam, nel sud dell’Australia. Anche la Fortescue Metals Group, che assieme alla BHP Billiton costituisce una delle più grandi società minerarie in Australia e al mondo, ha annunciato un ritardo ad espandere le sue strutture nel territorio australiano.

Un altro motivo di preoccupazione tra le società minerarie è stata l’introduzione di nuove imposte come la Minerals Resource Rent Tax (o MRRT) e il programma Clean Energy Future, la quale comprende la nuova Carbon tax, entrata in vigore lo scorso luglio 2012 durante il governo socialdemocratico di Julia Gillard.

Attraverso la MRRT, il governo ha imposto una tassa del 30% sulle imprese minerarie con un utile annuo di oltre 75 mln di dollari australiani (circa 61 mln di Euro), colpendo circa 30 grandi società minerarie australiane, tra cui Rio Tinto e Xstrata, oltre alle già citate BHP Billiton e Fortescue Metals Group. La Carbon tax ha riguardato, invece, circa 300 aziende australiane soggette ad un’eco-tassa per l’inquinamento prodotto: 23 AUD per ogni tonnellata di gas-serra generato. Nell’elenco delle aziende coinvolte figurano non solo le imprese di estrazione mineraria, ma anche le compagnie aeree, le aziende produttrici di acciaio e le imprese energetiche, le quali hanno tutte manifestato immediatamente tutto il loro dissenso per un’imposta che potrebbe gravare sui loro profitti provocando un taglio agli investimenti strutturali.

Tuttavia, Deloitte Access Economics, la più importante società di previsioni economiche in Australia, ha messo in guardia l’attuale governo Gillard dal non far troppo conto sulle entrate generate dalla tassa sui superprofitti minerari nel medio periodo. Secondo le previsioni, la nuova MRRT produrrà entrate pari a 6,5 mld AUD disponibili nel biennio 2013-2014, ovvero “un introito fiscale altamente volatile, destinato a finanziare i crescenti impegni finanziari del Governo australiano”, avverte Glyn Lawcock, Amministratore delegato di UBS Investment Bank di Sydney. Pronta la risposta del governo laburista che ha reagito alle accuse, sostenendo come il nuovo budget abbia tenuto conto di un declino dei prezzi delle risorse e della diminuzione delle entrate legata alla crisi finanziaria globale.

Le tre fasi del boom del settore minerario

In Australia, un Paese ricco di risorse naturali, il boom delle materie prime nel settore minerario è stato d’altra parte la chiave del successo della crescita economica. Ancora oggi il settore minerario rappresenta il 7% dell’intera economia australiana. L’intera economia nazionale, anche quando in frenata, è stata prontamente sostenuta dal boom delle materie prime. Tuttavia, questa tendenza è stata ridimensionata a causa della crisi dell’economia globale e del calo degli investimenti internazionali, anche da parte di quei mercati chiave, quali la Cina e l’India.

Shane Oliver ha ripercorso, a grandi linee, tre fasi grandi fasi storiche che hanno attraversato il boom minerario:

– La prima fase è iniziata circa dodici anni fa ed è stata accompagnata da un forte aumento dei prezzi delle materie prime. Sia gli utili delle società minerarie, sia l’impiego di risorse umane sono saliti notevolmente. Le società pagavano più tasse e ciò ha portato ad enormi avanzi di bilancio aziendali e a tagli fiscali annuali; pertanto, non solo le aziende traevano benefici dalle risorse, ma la ricchezza prodotta coinvolgeva a cascata anche i settori marginali dell’economia del Paese.

– La seconda fase, è quella avviatasi nel corso degli ultimi due anni e ha riguardato un aumento degli investimenti in minerali ferrosi, carbone e gas naturale liquido e di altre materie prime, arrivati a incidere nel giro di un paio d’anni su circa il 4% del PIL.

– La terza fase, infine, è quella che normalmente si caratterizza dall’aumento del volume delle esportazioni di risorse minerarie a discapito degli investimenti. Una situazione che al periodo attuale del Paese è in forte stallo: la ripresa del volume delle esportazioni, derivanti dall’aumento degli investimenti, secondo le previsioni, dovrebbe cominciare a verificarsi nel corso di un paio d’anni.

Conclusioni: verso un’economia equilibrata

Davvero l’Australia corre il rischio di un disastro economico temuto da molti?

In realtà, l’inevitabile fine del boom speculativo degli investimenti nel settore minerario dovrebbe vedere il ritorno dell’Australia ad un’economia più equilibrata. In primo luogo, stiamo assistendo alla spinta verso l’attuazione di progetti di razionalizzazione delle risorse che avranno il merito di ridurre la pressione dei costi e l’aumento delle dimensioni di fornitura dei prodotti in anticipo, contribuendo inoltre ad evitare un crollo dei prezzi delle materie prime.

In secondo luogo, il rallentamento del boom speculativo degli investimenti nel settore minerario dovrebbe anche risollevare gli altri settori dell’economia, come l’edilizia, la vendita al dettaglio, la produzione e il turismo, che hanno sofferto negli ultimi 30 anni la pressione dei tassi di interesse e l’aumento del valore del dollaro australiano.

Pertanto, la fine del boom speculativo degli investimenti nei prossimi 18 mesi potrebbe ridurre drasticamente la pressione sui tassi di interesse e sul dollaro australiano, rilanciando tutti gli altri settori dell’economia australiana, in particolar modo quelli marginali, e favorendo una crescita più equa e bilanciata.

Questo potrebbe anche dare nuova linfa al volume delle esportazioni di risorse minerarie e agli altri settori dell’economia, anche se la qual cosa potrebbe comportare un disallineamento di circa un paio d’anni dalla sua attuazione, presumibilmente intorno al 2014. Per affrontare ciò, anche la Reserve Bank dovrà essere pronta ad abbassare i tassi d’interesse, favorendo i prestiti e un generale rilancio della produzione.

Indonesia: scenari di pace possibili in uno degli Stati più multietnici e multiculturali al mondo

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 10 gennaio 2013

 

Ex colonia olandese, l’Indonesia si è dichiarata indipendente dai Paesi Bassi nel 1945. L’esperienza coloniale, l’istituzione nel 1927 del Partai Nasional Indonesia (il movimento nazionalista indonesiano) e del Partito Comunista indonesiano (PKI), le prime elezioni libere nel 1955, i focolai di ribellione in lotta per uno stato islamico, la nascita di un esercito indonesiano e il dominio del primo presidente dell’Indonesia, Sukarno (capo del movimento indonesiano per l’indipendenza del Paese, allora Indie Orientali Olandesi), e poi del generale dittatore Suharto, sono stati i momenti più rilevanti che hanno determinato la storia di un immenso arcipelago costituito da oltre 17.000 isole e da più di 250 gruppi etnici, identificandola come la nazione musulmana più popolosa al mondo, e sulla carta, “multietnica, multiculturale e garante della libertà religiosa”.

Una colonia in perenne lotta

Nei primi anni Sessanta, Sukarno cercò di mantenere l’equilibrio politico, sempre più precario, tra il potere militare e il PKI, che era cresciuto al punto di diventare il terzo più grande partito comunista al mondo dopo quello sovietico e cinese. Nel settembre 1965, un gruppo di giovani ufficiali rivoluzionari sostenuto da alcuni membri del PKI, uccise sei generali in un misterioso complotto, annunciando di aver preso il potere per prevenire un colpo di Stato militare. Tra i sopravvissuti vi era il generale Suharto, cha da giovane si era arruolato nel corpo dei volontari addestrati sotto il comando giapponese in seguito all’invasione dell’Indonesia dopo la fine della seconda guerra mondiale. All’epoca i nipponici avevano conquistato rapidamente l’appoggio dell’élite nazionalista indonesiana, in nome di un fronte comune contro l’imperialismo “bianco” per l’indipendenza dall’Olanda. Il generale Suharto, radunato l’esercito reale, prese formalmente il posto di Sukarno nel 1967 e istituì il “Nuovo Ordine”, dicitura con cui si identifica il trentennio di autoritarismo (1967-1998) con cui Suharto distinse il suo governo dal “vecchio ordine” condotto dal predecessore.

Nazionalismo e anticomunismo resteranno i due aspetti chiave dell’ideologia di Suharto, che indicava nel partito comunista il mandante di esecuzioni e la causa di ogni violenza. Per tale ragione incoraggiò gruppi di giovani musulmani locali per combattere tutti i membri appartenenti al PKI: in pochi mesi vennero massacrati 500 mila cittadini, altri furono incarcerati o, ancora, licenziati. In particolare fu la minoranza etnica cinese ad essere presa di mira dalle persecuzioni e dai massacri perché sospettata di essere la “quinta colonna” di Mao Tse- tung in tutto l’arcipelago.

Il terrore che ha regnato durante il Nuovo Ordine si è fondato su una fitta rete di agenzie di spionaggio che hanno controllato ogni forma di dissenso e schiacciato la libertà d’espressione. L’apertura alla globalizzazione, la crisi finanziaria asiatica del 1997, la crescente insoddisfazione verso il governo di Suharto e la corruzione inarrestabile della sua famiglia, cancellarono ogni residuo di consenso verso il regime e aprirono la strada alla democrazia.

Una terra di conflitti

Gli anni di Suharto al potere furono segnati da scie di violenza che durarono sino al 1998. L’autoritarismo è stata la causa della maggior parte dei conflitti nel Paese, benché le origini di questi abbiano avuto origini ben più profonde. Questi i principali focolai di guerra suddivisi per area:

Nuova Guinea Occidentale (che oggi comprende le province Papua e Papua Occidentale ad ovest dell’isola Nuova Guinea) – La pressione delle Nazioni Unite nei confronti dei Paesi Bassi che mantenevano il controllo dell’isola, portò nel 1969 al referendum per l’autodeterminazione: l’Act of Free Choice decretò all’unanimità l’annessione all’Indonesia. Tuttavia quest’ultima praticò una politica fortemente repressiva e l’area fu trascurata dai piani di sviluppo nazionali. Si stima che oltre 100.000 papuani siano morti in atti di distruzione, tortura, violenza e sparizione e che migliaia siano stati i rifugiati. Solo nel 2001 una legge garantì all’area uno status di “Autonomia Speciale”; nel 2003, infine, il governo Megawati, figlia di Sukarno, divise la Guinea Occidentale in due province: le attuali Papua e Papua occidentale.

Nonostante tale autonomia abbia rappresentato un traguardo importante per la stabilità, sono diversi i nodi che restano da risolvere: la formazione di gruppi di guerriglieri separatisti (come il Movimento Papua Libero – Organisasi Papua Merdeka/OPM), le tensioni legate all’inversione demografica tra le popolazioni indigena e non indigena, la mancanza di equità nell’accesso alle ricchezze e alle risorse naturali, la mancanza di dialogo culturale, lo stallo nell’esercizio delle libertà politiche, la mancanza di raccordo tra governo nazionale ed autorità locali. Tutti problemi che alimentano instabilità e sfiducia nei confronti delle istituzioni e del governo di Giakarta.

Aceh (o Nanggroe Aceh Darussalam) – Situata a nord dell’isola di Sumatra, la provincia resistette al dominio olandese più di ogni altra zona dell’Indonesia. Le rivendicazioni pro-autonomia non trovarono però mai accoglimento da parte del governo. Ne derivò una ribellione armata organizzata dal gruppo islamista Darul Islam nel 1953 che però fu presto sconfitto. Pochi anni più tardi, alcuni ex membri formarono un movimento per l’indipendenza chiamato Free Aceh Movement (Gerakan Aceh Merdeka o GAM). Il governo Suharto lanciò una lunga offensiva massiccia contro gli insurrezionalisti per tutto il periodo tra 1990-1998 ma gli abusi perpetuati dall’esercito non trovarono mai giustizia. Approfittando del malcontento popolare, dell’arrivo della nuova apertura politica post Suharto e prendendo spunto dal referendum per l’indipendenza indetto da Timor Est nel 1999, il GAM si ripropose con violenza nel 1999-2000. I negoziati tra il governo e alcuni esponenti del movimento, grazie anche alla mediazione del Centro Henry Dunant, fermarono temporaneamente la scia di violenza.

Solo lo tsunami del 2004, che causò centinaia di migliaia di morti nella provincia di Aceh, e l’arrivo degli aiuti umanitari internazionali riuscirono a placare l’odio del gruppo. I colloqui di Helsinki nell’agosto 2005, mediati dall’ONG Crisis Management Initiative, portarono il GAM e il governo ad un accordo di pace storico, in base al quale i anche i partiti politici locali come il Partai Aceh (o Aceh Party), portavoce delle istanze GAM, furono ammessi a partecipare alle elezioni provinciali.

Tuttavia le complicazioni post-conflitto rimangono ad oggi irrisolti: l’assimilazione di ex combattenti GAM nella società, le azioni criminali (tra cui l’estorsione e i sequestri di persona da parte dei fanatici), i numerosi attacchi terroristici contro la sede del Partai Aceh, l’insediamento delle rimostranze storiche e il timore diffuso di nuovi appelli all’indipendenza da parte dei militanti del GAM.

Ambon e Isole Molucche – La parte meridionale dell’arcipelago delle Molucche (conosciute anche come Moluccas, Isole Moluccan o semplicemente col termine indonesiano Maluku) è stata una delle poche aree delle Indie Orientali Olandesi a preferire il controllo olandese. Alcuni leader proclamarono la Repubblica delle Molucche del Sud (RMS) nel 1950 piuttosto che sottomettersi al controllo di Giacarta. In gran parte cristiano in una zona equamente divisa tra cristiani e musulmani, il movimento RMS fu rovesciato dal governo dopo una breve ma sanguinosa battaglia, costringendo circa 12.000 famiglie a fuggire verso i Paesi Bassi.

La convivenza tra cristiani e musulmani ha continuato ad essere sostanzialmente pacifica fino alla fine del mese del digiuno musulmano nel 1999, quando un caso isolato ha dato vita ad una spirale di violenze – le cui cause non furono esclusivamente religiose, ama soprattutto economiche, politiche, etniche e locali – che provocarono circa 5.000 vittime e circa 500.000 sfollati. Il conflitto in quest’area, tra i peggiori che hanno afflitto la storia dell’Indonesia, si concluse con gli accordi di pace firmati all’inizio del 2002.

Latenti tensioni interreligiose, corruzione crescente, problemi legati ad un’equa distribuzione delle ricchezze e ad un equo accesso alla terra e alle risorse, minano ancora oggi la stabilità del territorio.

Sulawesi Centrale – Le battaglie tra cristiani e musulmani, spesso sostenuti dai diversi partiti politici in competizione, hanno portato nel giro di un paio d’anni, tra il 1998 e il 1999, ad un’escalation di violenza tra le due comunità. Poso è stata una delle zone più colpite, con il massacro di oltre 100 musulmani da parte dei cristiani. Gli accordi di Malino firmati nel dicembre 2001 servirono solo a diminuire l’intensità degli attacchi fra fazioni ma non ad eliminare il conflitto che si è protratto fino al 2006 a causa dell’azione di gruppi radicali come il Mujahidin KOMPAK e l’organizzazione terroristica Jemaah Islamiyah (JI).

Conclusioni: una giovane democrazia tra gestione e risoluzione dei conflitti interni

Il periodo post-Suharto in Indonesia, conosciuto come “Reformasi” (parola indonesiana che indica “Riforma”), rappresenta una nuova era politico-sociale aperta e liberale iniziata nel 1998 e portata avanti dall’attuale presidente, il moderato Susilo Bambang Yudhoyono. Le elezioni elettorali degli ultimi anni svoltesi in modo pacifico e legale e prive di scandali hanno mostrato che la democrazia ha finalmente messo radici nonostante permangano nostalgici di Suharto sulla scena politica e problemi storici legati all’influenza delle forze armate, alla minaccia di un fondamentalismo islamico e alle storiche tensioni lungo le linee etniche con la creazione di nuovi quartieri-ghetto. Senza contare il fallimento del governo nell’affrontare in modo efficace il problema dei rifugiati e quello delle elite locali e delle popolazioni indigene che basano il loro potere sul controllo del territorio e sulla repressione di sfollati e migranti.

Altri conflitti, come il massacro avvenuto nel Kalimantan – che è costato la vita a circa 1000 persone e che ha provocato circa 100.000 sfollati tra i Dayak indigeni e alcuni gruppi malesi contro un gruppo di maduresi immigrati –, e nuovi episodi di conflitto fra gruppi come a Bali e nel Timor Ovest sono, secondo analisti ed esperti, la prova di una convivenza insostenibile, della precarietà dell’equilibrio sociale, economico e culturale che regna ancora oggi in Indonesia. Prima ancora dei conflitti, sono spesso semplici episodi a scatenare faide: l’ultima in ordine di tempo (tra ottobre e novembre 2012) riguarda gli scontri che hanno portato all’uccisione di 14 persone nella provincia di Lampung, sull’isola di Sumatra, territorio a maggioranza musulmana dove l’odio interconfessionale fra musulmani e indù si mescola a divisioni etniche fra i nativi e migranti provenienti da Giava che da decenni vivono nella zona. All’origine di questa commistione vi è la “politica di trasmigrazione” promossa da Suharto, mirata a svuotare le aree più popolose del Paese come l’isola di Giava, per “riempirne” altre con una densità abitativa di gran lunga inferiore. Tra queste vi è appunto Lampung dove i migranti giavanesi hanno poi stabilito la dimora, promosso attività e praticato il culto di appartenenza.

Poter gestire autonomamente i conflitti ancora esistenti senza richiedere la mediazione internazionale, è, dopo la conquista della democrazia, e alla luce dei numerosi problemi, il traguardo più importante che il Paese dovrebbe raggiungere nell’era delle riforme.

A riprova di ciò, esistono casi e proposte che oggi offrono al Paese opportunità di cambiamento e spunti nuovi per riflettere e affermare nuove strategie per la prevenzione, la gestione e la risoluzione di conflitti futuri, come le iniziative del governo di deradicalizzare i movimenti fondamentalisti attraverso la cattura di influenti leader jihadisti e i dibattiti interni sull’uso legittimo della violenza, o, ancora, come la questione sempre aperta della comunità indigena di Papua che sogna l’indipendenza da Giakarta: il “dialogo costruttivo” con il governo centrale, così come recentemente proposto dal pastore Neles Tebay e dal ricercatore Muridan Widjoyo, è, nonostante tutte le difficoltà, ancora realizzabile – oltre che auspicabile – per un terra così, non solo geograficamente, frammentata.

 

Per approfondire:

International Crisis Group, Indonesia conflict History, febbraio 2010

Québec: il multiculturalismo alla prova delle spinte separatiste

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 27 febbraio 2013

 

Il Québec, provincia del Canada orientale, con la sua lingua (il francese è quella ufficiale), la sua cultura e le sue istituzioni, costituisce una vera e propria nazione all’interno dello Stato federale del Canada, primo Paese nel 1971 ad adottare ufficialmente il Multiculturalismo attraverso iniziative tese a valorizzare le molteplici minoranze linguistiche presenti sul territorio (il cosiddetto “mosaïque culturelle canadienne”): tra le varie misure vi è, ad esempio, il riconoscimento della lingua italiana come patrimonio comune dello Stato canadese, essendo essa la terza lingua parlata nel Paese nordamericano.

Lo storico dibattito degli anni Settanta sulla questione linguistica finì per spaccare la società e l’opinione pubblica quebecchese, dando spazio alle istanze nazionalistiche e indipendentiste rappresentate dal Partito Quebecchese (Parti Québécois, PQ). Quarant’anni dopo, nuove mire secessioniste potrebbero profilarsi sulla scena politica della più estesa provincia della Confederazione a seguito della vittoria del PQ, tornato al governo dopo nove anni con le elezioni legislative del 5 settembre 2012 grazie alla sua leader, Pauline Marois, prima premier donna della storia del Québec.

Popolazione nata all’estero. Fonte: Statistics Canada

Paesi di provenienza dei Canadesi nati all’estero. Fonte: Statistics Canada

Il caso: il fenomeno migratorio della comunità italiana nel Québec e la politica del multiculturalismo

Il fenomeno migratorio italiano di massa del secondo dopoguerra verso il Canada, e in particolare verso l’Ontario e il Québec, riveste ancora oggi un interesse peculiare all’interno degli studi sulle migrazioni italiane nel mondo. L’imponente flusso migratorio che ha contributo all’arrivo di circa 700 mila italo-canadesi nell’arco di un secolo [1] ha reso quest’ultimi uno dei gruppi linguistici più consistenti nel territorio canadese dopo gli anglofoni e i francofoni. I migranti italiani, soprattutto di origini calabresi e molisane, non hanno fatto fatica ad inserirsi in un contesto linguistico e giuridico caratterizzato dal bilinguismo franco-inglese e dal federalismo politico che ha prodotto una specifica politica di integrazione – tuttora in vigore – votata al Multiculturalismo sia a livello provinciale, sia nazionale.

A Montréal, la città più popolosa del Québec, si concentrava la più grande Petite Italie del Mile End, cuore economico e culturale delle prime comunità italiane del XX secolo, le cui caratteristiche più spiccate erano l’organizzazione delle istituzioni etniche e l’intensità della vita comunitaria segnate dal forte sentimento religioso e dall’attaccamento alle feste patronali del Paese di origine. Nella Petite Italie le comunità italiane partecipavano attivamente alla vita politica, sociale ed associativa. E’ nel quartiere residenziale di Saint-Léonard a Montréal, oggi abitato dal 41 per cento di italiani, che nacque il Centro Leonardo da Vinci, sostenuto, assieme ad altre associazioni, dalla Fondazione Comunitaria Italo-Canadese del Québec (FCCIQ). Oggi il quartiere è sede anche di attività culturali, sportive, ricreative e filantropiche con l’obiettivo di diventare lo specchio dell’Italia a Montréal, mantenendo vive le tradizioni della comunità locale, favorendo i rapporti con il Paese d’origine e coinvolgendo l’insieme di tutti gli altri gruppi etnici e culturali canadesi. In seguito, e con l’acuirsi della crisi linguistica degli anni Settanta, nacquero altre associazioni, il Consiglio Educativo italo-canadese e il Congresso nazionale degli italo-canadesi che hanno giocato un ruolo importante nella storica disputa avvenuta tra i tre gruppi linguistici presenti – i francofoni, gli anglofoni e gli allofoni – per stabilire le priorità linguistiche della provincia quebecchese e la possibilità dell’insegnamento dell’inglese nelle scuole pubbliche.

Gli Italiani facevano parte del gruppo degli allofoni, ma spesso erano definiti genericamente come “etnici” come tutti i vari gruppi d’immigrati non francofoni che si stavano stanziando in Canada. Nonostante parlassero abitualmente inglese o francese, per i québécois d’origine le prime comunità di italiani erano identificate come “etniche”, cioè di non autoctoni, e quindi estranee al di là della lingua parlata. Lo scontro più duro si svolse in particolare tra le associazioni e le commissioni scolastiche della città di Montréal: la Protestant School Board of Great Montreal e la Commission des écoles catholiques de Montréal, al punto da convincere il governo federale a pronunciarsi in merito alla questione linguistica e a proclamare nell’1977 la vittoria del fronte francofono con l’introduzione della “Loi 101” o “Charte de la langue française” (Carta della lingua francese). Con questa legge, il Québec diventò una provincia a maggioranza francofona, basata su leggi e regolamenti per garantire la propria identità linguistica e culturale, soprattutto nei confronti di una popolazione estremamente eterogenea e avviata verso la politica del Multiculturalismo.

La questione linguistica come pretesto politico per il secessionismo

Contemporaneamente alla legge del 1977, il nuovo Citizenship Act conferiva pari diritti civili e politici a tutti i Canadesi di origine e a quelli naturalizzati, consentendo a tutti loro di inserirsi nella cultura francofona maggioritaria e allo stesso tempo difendendo le proprie tradizioni. La politica interculturale oltre alla tutela etno-culturale, apriva spazi di manovra che con il tempo furono considerati in maniera positiva dalle comunità etniche, le quali poterono accedere a fondi provinciali per progetti specifici per l’insegnamento della propria lingua materna e in seguito anche della lingua inglese (quest’ultima era preferita e spesso utilizzata nel lavoro dai maggiori gruppi imprenditoriali della provincia). Gli allofoni di Montréal, e tra questi anche l’importante comunità degli italo-canadesi, non gradirono inizialmente l’introduzione della nuova Loi 101, né furono favorevoli alla nuova svolta politica e culturale del Paese, ma gli spazi offerti dal Multiculturalismo offrirono loro l’occasione non solo di coltivare la propria lingua materna e ampliare la conoscenza dell’inglese, ma anche di influenzare rapidamente le politiche locali. Le comunità etniche diventarono infatti sempre più gruppi di pressione e bacini di voti per i candidati dei due maggiori partiti canadesi, liberale e conservatore, sebbene in Québec la situazione fosse complicata dalle spinte separatiste del Parti Québécois di René Lévesque.

Conseguenza dell’adozione della Loi 101 fu la formazione del primo governo del PQ, nato con l’intenzione di separare la provincia francofona dal resto del Canada e di riconoscere il diritto di autodeterminazione per le popolazioni autoctone del Québec a condizione che l’integrità territoriale della provincia non fosse messa in discussione. Con il passare del tempo il PQ ha assunto un’impronta più marcatamente secessionista, facendosi promotore di un referendum sulla separazione, bocciato tuttavia sia nel 1980 sia nel 1995.

Alle elezioni provinciali dello scorso 5 settembre 2012, il PQ ha conquistato 54 dei 125 seggi dell’Assemblea Nazionale, con uno scarto di solo 4 seggi in più rispetto ai liberali dell’ex primo ministro Jean Charest al governo da nove anni. L’esultanza dei separatisti ha rischiato di finire in tragedia. Un uomo ha aperto il fuoco nel teatro di Montréal in cui stava parlando Pauline Marois, la leader del Parti Québécois fortunatamente rimasta illesa. L’incidente potrebbe spiegare lo stato di tensione venutosi a determinare nuovamente tra la comunità francofona e quella anglofona. Lo confermerebbe lo sfogo dell’invasato omicida, il quale in francese, e con un forte accento inglese, avrebbe urlato “Gli inglesi si stanno svegliando”. Il tema della secessione potrebbe risvegliare antichi dissapori, sebbene negli ultimi tempi il tema separatista non sembri essere stato al centro dell’interesse della popolazione: secondo i sondaggi tenutisi a settembre solo il 28% degli interpellati ha d’altra parte dichiarato di aspirare alla secessione.

Conclusioni

A distanza di quasi quattro decenni dal dibattito linguistico si può affermare che con l’approvazione della Loi 101, gli allofoni – tra cui la cospicua presenza italiana -, nonostante un ridimensionamento sul piano del riconoscimento politico, videro riconosciuto il diritto di essere considerati come culture da preservare in un contesto ad oggi all’80% francofono. Essi non solo non abbandonarono la scena politica, ma non persero mai coscienza del proprio peso politico. E’ anche grazie alla vitalità delle varianti linguistiche offerte dalle numerose comunità etniche presenti nel territorio che oggi prospera un vivo multiculturalismo nella società quebecchese, a differenza del resto del Canada, un Paese bilingue con chiara maggioranza anglofona e una presenza francofona non del tutto rilevante.

L’attuale governo provinciale di Pauline Marois deve quindi affrontare alcuni punti del suo programma che secondo il quotidiano L’Indipendenza appaiono “contradditori”, a cominciare dal radicamento del suo sciovinismo. Il PQ nel suo programma propone infatti una legge sulla cittadinanza in base alla quale tutti i nuovi arrivati nel Québec dovranno superare, entro tre anni, un esame di lingua francese, prima di acquisire pieni diritti politici. In caso di non superamento, si potrebbe perdere il diritto a candidarsi e anche quello di presentare semplici petizioni al Parlamento locale. Con questa proposta espressa nel programma del PQ, il Québec mostrerebbe tutto il proprio orgoglio identitario che non solo richiama il suo legame storico con la Francia di cui fu colonia per due secoli fino al 1763, ma soprattutto metterebbe in discussione la politica del multiculturalismo faticosamente e fieramente raggiunta dal Québec nel corso degli ultimi decenni: come può una società così aperta fare un passo indietro verso un fanatismo più chiuso e intollerante persino nei confronti di altri conterranei? Una politica tendenzialmente sciovinista potrebbe creare problemi ben più seri: potrebbe ad esempio spingere le minoranze escluse a ricorrere alla violenza. Il monito dell’attentato al teatro di Montréal dello scorso settembre 2012 potrebbe essere stato un segnale d’allarme.

 

Per approfondire:

La questione dei flussi migratori degli Italiani verso il Canada si legga: Poggi I., La comunità italiana a Montréal e la questione linguistica, Centro Altreitalie-Globus et Locus, 2009.

Donne in Afghanistan: il difficile cammino per l’autodeterminazione

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 27 giugno 2013

 

Lo scorso 18 maggio il Parlamento afghano ha sospeso il dibattito parlamentare sulla questione della violenza sulle donne interrompendo così l’iter di approvazione della legge voluta nel 2009 dall’attuale Presidente della Repubblica, Hamid Karzai: giudicata dai conservatori “contraria alla sharia”, si interrompono così i faticosi progressi compiuti in tema di diritti di genere in un Paese ancora sotto la pressione dei talebani con i quali, peraltro, il governo sta tentando in questi giorni di intavolare una delicata partita negoziale.

Diritti umani: una questione urgente

Oggi hanno fatto sentire la loro voce forte e chiara i parlamentari che si oppongono ai progressi, ai diritti e ai successi delle donne” ha detto Fawzia Koofi, Presidente della Commissione parlamentare per le donne e aspirante candidata alle elezioni presidenziali del 2014, che più si è battuta contro i membri più conservatori dell’assemblea per l’approvazione definitiva del decreto in questione che, anche se largamente disatteso, è entrato in vigore quattro anni fa sotto l’impulso della comunità internazionale e – in particolare – degli Stati Uniti. Il dibattito scatenato tra i conservatori e i deputati più laici dell’Assemblea avrebbe portato al rinvio del provvedimento, senza fissare una data futura e avrebbe inoltre siglato la bocciatura di almeno 8 articoli proposti, tra cui: il mantenimento a 16 anni come limite d’età di una donna per sposarsi (si voleva abbassarlo o abolirlo); la sussistenza di ricoveri per le donne vittime di abusi domestici e il dimezzamento (a due) del numero di mogli consentito.

Lo sconforto in Parlamento si unisce a quello di una società da sempre alle prese con una questione delicata ed urgente che investe trasversalmente diversi ambiti di intervento e non solo quello dei diritti umani. Si teme infatti che la crescente insicurezza che sta ora investendo la società e i già limitati (pur se visibili) progressi raggiunti nei recenti anni del post-regime talebano, possano ridursi ulteriormente quando, alla fine del 2014, le truppe militari dell’ISAF (International Security Assistance Force) in supporto al governo afghano, potrebbero lasciare il Paese.

Sull’argomento l’opinione pubblica si divide. Le organizzazioni civili che si battono per la tutela dei diritti umani, contrariamente alle posizioni istituzionali e militari, sarebbero scettici nei confronti dell’allontanamento definitivo degli aiuti internazionali militari e sono pronti a scommettere che molto probabilmente la presenza militare non solo continuerà ad esistere, ma che manterrà anche la stessa strategia politica con il consenso dell’amministrazione Karzai accusata dalla società di fare troppo poco per ottenere un reale progresso nei negoziati di pace con i gruppi talebani ancora forti e presenti in molte aree del Paese, quindi di non curare debitamente alcune priorità essenziali come diritti umani e diritti delle donne.

Vittime di violenza

Tutti ricordano il caso di Malala Yousafzai, la studentessa pakistana, attivista, vittima di un attentato di rivendicazione talebana, gravemente ferita mentre tornava da scuola e salva per miracolo, diventata simbolo di coraggio e di speranza per tutte le donne del mondo che si battono per il diritto universale all’istruzione. Come lei lo scorso febbraio anche un’altra giovane attivista per i diritti delle donne, afgana, è stata aggredita dai talebani e alla fine uccisa. La vicenda, poco trasmessa dai media internazionali, ha suscitato ugualmente scalpore e vergogna: Anisa aveva 16 anni, era volontaria in una clinica per la somministrazione del vaccino antipolio gestita dal Ministero della Sanità pubblica ed è stata uccisa perché si batteva a favore dell’istruzione femminile e per promuovere i vaccini antipolio nella sua regione, sfidando il pregiudizio dei gruppi talebani su questo strumento considerato un “veicolo del virus dell’Aids”.

Molti sono i casi di questo genere che riguardano donne, spesso giovanissime, oltraggiate e vittime di violenza, ree di aver mostrato coraggio e impegno nella dura lotta verso il rispetto universale dei diritti umani. Tuttavia, alle vicende più truci e feroci, fanno eco fortunatamente le storie di ragazze che sono riuscite a salvarsi, come la giovane Manizha, 20 anni, sostenuta lo scorso febbraio 2013, da un progetto editoriale chiamato “Vite Preziose” dell’Osservatorio HAWCA (Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan) che le ha permesso di sottrarsi, dopo due anni di matrimonio, ai massacri e agli abusi perpetrati dal marito e dalla sua famiglia. Immediata è stata la risposta dei lettori e il sostegno degli sponsor che hanno permesso alla giovane, con i contributi raccolti, di essere curata, supportata psicologicamente e trasferita in una nuova casa d’accoglienza per ragazze che hanno subito traumi simili.

Ripartire si può 

Le storie di queste giovani donne afghane costrette a subire violenze e abusi quotidiani di natura psicologica, fisica ed economica, nonché le prevaricazioni ed umiliazioni a cui le donne vanno incontro indifferentemente dall’estrazione sociale e dall’età, sottomesse a determinati costumi tradizionali e tribali al limite della dignità umana, spingono l’opinione pubblica internazionale ad interrogarsi su possibili forme di sostegno e impongono al governo afghano l’adozione di misure di intervento urgenti ed adeguate.

Il dibattito parlamentare sull’approvazione della legge Karzai e il successivo “stop” legislativo sono lo specchio di una società ancora troppo chiusa in se stessa e nelle proprie tradizioni. Le Istituzioni, infatti, non sono ancora riuscite a misurarsi con il pluralismo culturale tipico di una società democratica che guarda al cambiamento come un’opportunità e non come una minaccia alle proprie origini culturali e religiose: molti dei deputati presenti al dibattito hanno citato più volte la legge islamica della “sharia” per contrastare il decreto legge voluto da Karzai, scoraggiando la riconquista di alcuni diritti elementari ottenuti duramente negli anni recenti (come ad es. l’istruzione) e osteggiati durante il regime talebano.

Il divieto della violenza sulle donne in Afghanistan perciò è una questione di emergenza nazionale. Attualmente il Paese è per loro il luogo più pericoloso: il 90% della popolazione femminile afghana ha subito violenza domestica (stupri, matrimoni forzati, ecc.) e presenta un tasso altissimo di suicidi tra le donne (solo nel 2011 i casi sono stati 2.300), spesso legato alla logica del “più abusi = più suicidi”. La maggior parte delle vittime fuggono da casa per evitare la violenza domestica o un matrimonio forzato e sente di non avere scelta.

Una delle missioni di RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan) che lotta per la diminuzione della disparità di genere e che opera sia ambito educativo sia sanitario, è proprio quella di cambiare la diffusa mentalità distorta. Il monito lanciato dal personale locale di RAWA, impegnato nella sensibilizzazione delle donne dei villaggi di tutto il Paese invitando le stesse a ribellarsi alla violenza e alla denuncia per poter porre le basi del cambiamento, è illuminante: “Se ti suicidi non cambierà niente; la tua morte renderà il tuo nemico più forte”. Tuttavia, RAWA ammette che sono ancora molto pochi i casi di fermo o i condannati da un tribunale afghano (la maggior parte dei quali finisce quasi sempre con il rilascio degli imputati dietro compenso di tangenti) e questo non solo per mancanza di coraggio a sporgere denuncia da parte delle vittime.

L’assistenza medica, sociale, psicologica o legale è infatti scarsa e a volte inesistente. I responsabili godono di immunità e copertura, a causa di una cultura che crede prevalentemente nella superiorità dell’uomo sulla donna e non rispetta i diritti sanciti dalla legge. Ci sono poi i casi in cui la legge può poco o nulla, in particolare nei confronti delle donne sposate – quindi legate da vincolo matrimoniale al marito e alla famiglia di lui – per le quali l’ottenimento del divorzio o della libertà potrebbe risolversi – occasionalmente – solo attraverso un patteggiamento di fronte ad un’assemblea di anziani del villaggio. Avere giustizia, perciò, è spesso impossibile. Nelle comunità è diffusa la convinzione che la violenza domestica sia un fatto privato di cui non si debba parlare e su cui non si debba intervenire.

Dal 2006 ActionAid, impegnata nella lotta alle cause della povertà e dell’esclusione sociale, ha avviato un progetto che nasce dalla collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per le Donne (UNIFEM) e co-finanziato dal Ministero degli Affari Esteri Italiano per creare e sviluppare un sistema di supporto legale per le donne afghane vittime di violenza, attraverso la formazione specifica di assistenti legali per consolidare un sistema di denuncia e lotta contro la violenza e la creazione di gruppi di informazione e formazione in diversi villaggi afghani che assistono le donne nel difficile cammino verso l’autodeterminazione.

Le organizzazioni sociali (ONG e ONLUS che operano sul territorio, quindi a stretto contatto con le comunità locali) e l’impegno di tutta la società civile, se adeguatamente supportati dalle Istituzioni nazionali ed internazionali, possono essere la risposta al faticoso, seppur lento, percorso verso il pieno rispetto dei diritti umani affinché mai più sia negata ad una donna la possibilità di un presente e di un futuro sereno, di un’istruzione e di un lavoro che possano contribuire alla sua stabilità e a quella della sua famiglia.

Elezioni in Australia: il ritorno dei liberali

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI – 10 settembre 2013

 

Il 7 settembre 2013 la coalizione dei liberali ha vinto le elezioni generali australiane con il 53,1% delle preferenze contro il 46,8% del Partito laburista e potrà ora godere di una maggioranza confortevole dei seggi in Parlamento (150 in tutto): 88 contro i 57 dei laburisti, questi ultimi al potere negli ultimi sei anni. Insieme ai due principali schieramenti, ben altri cinquanta partiti hanno partecipato alle consultazioni, tra i quali i Verdi, il Palmer United Party – guidato dal miliardario Clive Palmer – e il Wikileaks Party di Julian Assange che non è riuscito ad andare oltre l’1,19% e ad entrare in Parlamento mettendo così fine all’esilio nell’Ambasciata ecuadoriana a Londra del suo fondatore. Tutte queste formazioni si sono avvantaggiate dalla frammentazione della base elettorale laburista.

Tony Abbott, leader della “Coalizione” (intesa formata da Liberal Party, National Party, Country Liberal Party e Liberal National Party), ha conquistato la vittoria dichiarando: “L’Australia è sotto una nuova gestione e l’Australia è di nuovo aperto al business” promettendo un governo più “competente e affidabile“. Abbott, 55 anni, cattolico conservatore, soprannominato dai suoi nemici Mad Monk (monaco pazzo), accusato di misoginia e protagonista di una lunga serie di gaffe, potrebbe essere considerato un vincitore “miracolato” più dai recenti disastri dei laburisti che da una vera opposizione da lui rappresentata.

Laburisti nel caos negli ultimi anni

Pur avendo accompagnato con successo l’Australia nei difficili anni della recessione globale, il Labour Party australiano (ALP) ha pagato a caro prezzo sia alcune scelte di politica economica (prime fra tutte l’aumento vertiginoso delle tasse per far fronte alle ripercussioni della crisi economica globale) sia le profonde divisioni interne. Da tempo infatti aveva perso credibilità presso l’elettorato. Già una prima volta, nel 2010, il suo leader e Premier uscente, Kevin Rudd, era stato costretto a mettersi da parte a seguito dell’attivazione all’interno del partito della cosiddetta procedura di “leadership spill” (attraverso cui si verifica il grado di sostegno al proprio leader), lasciando il posto – e dunque l’esecutivo – a Julia Gillard, appartenente alla right wing dell’ALP e prima donna a guidare il governo federale dell’Australia.

Proprio la Gillard ha patito la medesima sorte quando, sfiduciata dal partito lo scorso 26 giugno a poche settimane del voto e a seguito della votazione da essa stessa richiesta, ha dovuto rimettere la leadership nelle mani del suo predecessore, Rudd, eletto dal gruppo parlamentare del partito.

La pressione sulla Gillard perché abbandonasse l’incarico, vista anche la caduta libera del Labour Party nei sondaggi di quest’estate, ha comunque avuto l’effetto positivo di recuperare una buona parte del favore dell’elettorato di riferimento. Nonostante si profilasse, nella migliore delle ipotesi una sconfitta pesantissima, nella peggiore il quasi totale annichilimento dei deputati laburisti, Rudd è riuscito nell’ultimo mese a ridurre il distacco dal Partito Liberale puntando forte sull’economia (oltre che competere alla pari su un tema particolarmente sentito quale l’immigrazione clandestina): infatti, malgrado le difficoltà registrate da Canberra negli ultimi anni – generate in primo luogo dalla caduta della domanda delle materie prime, il settore trainante l’intera economia nazionale –, Rudd ha puntato forte sugli ultimi dati economici a difesa dell’operato dei Labour: la crescita nel 2013 si attesta al 2,5%, l’inflazione al 2,4% e la disoccupazione resta a livelli – per gli standard europei – decisamente bassi (5,7%). Per non parlare del deficit, metà di quello degli Stati Uniti (30 milioni) e del debito netto, un ottavo del PIL.

Su questo punto, d’altra parte, l’appoggio di Rupert Murdoch ai liberali ha contribuito a una campagna elettorale incandescente. Il potente e discusso tycoon del grande gruppo editoriale internazionale News Corporation che controlla il 70% del mercato dei quotidiani australiani, nei primi giorni di agosto avrebbe dato la notizia delle elezioni come una chance per battere i labouristi, inadatti a suo dire, a risolvere la situazione economica odierna, esprimendosi attraverso le colonne del Daily Telegraph con un perentorio: “Finalmente un’occasione per buttare fuori questa gente”. Rudd ha successivamente risposto accusando Murdoch di convenienza: appoggiare i liberali per difendere i propri affari personali e interessi economici.

La campagna elettorale incoraggia i Laburisti ma non basta

Tony Abbott ha così vinto promettendo tagli alle tasse per ben 42 miliardi di dollari australiani. Direttore di uno stabilimento di cemento, giornalista e consigliere politico, Abbott ha trascorso quattro anni come leader dell’opposizione nel tentativo di abrogare la carbon tax, una tassa sulle emissioni di CO2 istituita dai laburisti per contrastare il surriscaldamento climatico. Si tratta di una tassazione rivolta alle aziende – eccetto per il settore dell’agricoltura e dei trasporti – che emettono inquinamento per più di 25.000 tonnellate di emissioni carbonifere all’anno; una tassa che reso l’Australia uno dei Paesi più attivi nella lotta alle emissioni inquinanti ma che, per molti, ha costituito un limite alla ripresa industriale. Se verrà realizzato quanto promosso durante la campagna elettorale, la Coalizione darà ora invece vita ad un “Direct Action Plan” quadriennale da 3,2 miliardi di dollari secondo cui agricoltori e industriali verranno pagati per ridurre le emissioni.

Durante l’accesa campagna elettorale di quest’estate, i laburisti avevano accusato Abbott di ingenti tagli alla spesa e al lavoro, che avrebbero portato Paese all’austerità in pieno stile europeo. Abbott ha ricacciato le accuse, affrontando temi come lavoro e welfare nonostante il costo della vita in Australia si faccia sempre più pressante e nonostante una situazione finanziaria attuale in “emergenza di bilancio” – sebbene studi mostrino un aumento di circa 5.300 dollari in più rispetto al 2008, anno dell’inizio della crisi economica-finanziaria mondiale, nelle entrate di una famiglia media australiana.

Tra le altre promesse di Abbott: un taglio del 1,5% sulle tasse alle aziende, fatta eccezione per le 3.000 compagnie più grandi del Paese, sulle quali continuerà a gravare l’aliquota del 30% e investimenti per circa 11 miliardi di dollari per migliorare le infrastrutture e la qualità della rete stradale, venendo incontro ai pendolari suburbani, già da tempo in agitazione per ingorghi e traffico nelle più grandi città.

Un’altra grande promessa elettorale è stata quella di garantire un’indennità di maternità particolarmente favorevole, offrendo alle madri fino a 75.000 dollari australiani per un congedo di sei mesi, sostenendo una migliore qualità della vita della donna moderna nel suo rapporto, spesso contrastato, famiglia/lavoro. L’azione, probabilmente tesa a catturare l’elettorato femminile, vorrebbe essere una risposta all’etichetta di “misogino” propinata da Julia Gillard durante i famosi quindici minuti di arringa dell’ex Premier australiano dello scorso ottobre 2012, in cui, in seguito all’ennesimo scivolone sessista di Abbott, affermò: “Non accetterò lezioni di sessismo e misoginia da quest’uomo. Né lo farà il governo, né ora né mai”.

Oltre che sull’economia e sul welfare, la campagna elettorale australiana si è giocata su temi come il lavoro (i laburisti di Rudd avevano promesso incentivi per la scolarizzazione e la creazione di nuove opportunità d’impiego, mentre i conservatori si erano concentrati su proposte di carattere prettamente economico), su questioni legate al clima e all’energia e sull’emergenza degli immigrati clandestini, da anni forse il principale tema di agitazione politica e sociale in Australia (nel 2012 sono stati oltre 12mila gli sbarchi irregolari dall’Asia).

Sul fronte laburista, il già citato ridimensionamento del vantaggio liberale non ha risparmiato le critiche mosse da un elettorato abbastanza perplesso su alcuni punti centrali come il tema energetico e climatico con l’ipotetica sostituzione della Carbon tax con una nuova Emission Trading Scheme per contrastare i gas serra, e soprattutto sull’accordo con Papua Nuova Guinea e con l’isola di Nauru per il respingimento dei rifugiati clandestini intercettati (“Piano Papua Nuova Guinea”) su barche non autorizzate e spediti sull’isola tropicale per essere identificati e valutati nelle loro richieste di asilo.

Si è trattato, come è stato detto, di una “sbandata verso destra” dei laburisti che avrebbe finito per influire negativamente e definitivamente sulla loro corsa elettorale, da un lato perdendo quella fetta di elettorato più incline ad una politica di concessione di asilo quasi incondizionato e dall’altro consentendo ad Abbott di non sentire più l’urgenza di propagandare in materia di rifugiati quanto piuttosto di verificare la reale capacità di Rudd di implementare le sue idee.

Sale ora l’attesa per il primo discorso del neo Premier sui temi di politica estera: Abbott ha da sempre privilegiato temi di politica estera che riguardassero principalmente le regioni di influenza australiane (Oceania, rapporti con la Cina e con i Paesi dell’Asia meridionale) in un’ottica soprattutto economico-commerciale – al contrario degli avversari che si sono sempre interessati di temi globali – e proprio poche settimane fa aveva definito il conflitto siriano una “guerra di cattivi contro cattivi”. Eppure il governo uscente, rappresentato dal Ministro degli Esteri Bob Carr, ha firmato a S. Pietroburgo insieme ad altri 11 Paesi il documento di condanna nei confronti del regime siriano. E l’Australia è, almeno per il mese di settembre, Presidente di turno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A questo punto qualche chiarimento su quale saranno le linee direttive estere di Canberra sono più che necessarie.

India e Cina: il prezzo socio-economico del progresso

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI –  5 novembre 2013

 

Il nuovo Rapporto globale dell’ILO (International Labour Organization) sul lavoro minorile solleva più di qualche quesito sui problemi del mercato del lavoro soprattutto nelle emergenti economie asiatiche. Per due colossi come India e Cina, entrambi Paesi BRICS con un elevato tasso di crescita annuo del prodotto interno lordo (del 3,2% per l’India e il 7,8% per la Cina, secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale) e con un immenso territorio e un’immensa popolazione (circa due miliardi e mezzo di abitanti assieme), come possono le questioni sociali legate alle condizioni di lavoro e allo sfruttamento minorile incidere sulla competitività economica internazionale? Qual è il prezzo del loro progresso?

Lavoro minorile in Asia: la riduzione del tasso non basta

Secondo il nuovo Rapporto ILO, pubblicato lo scorso 23 settembre 2013, nonostante il lavoro minorile nel mondo si sia ridotto di un terzo rispetto al 2000, passando da 246 milioni a 168 milioni di ragazzi sfruttati, la situazione al giorno d’oggi rimane ad ogni modo emergenziale. L’ILO rivela che il maggior numero di bambini lavoratori in termini assoluti si troverebbe nell’area Asia-Pacifico (con quasi 78 milioni di casi registrati) nonostante l’Africa sub-sahariana continui ad essere la regione con la più alta incidenza di minori in rapporto alla percentuale della popolazione. Resta però estremamente difficile quantificare la diffusione mondiale del lavoro minorile poiché si tratta di un fenomeno non misurabile, le cui cifre non tengono conto del dato ufficioso relativo, ad esempio, ai casi di lavoro in famiglia, nei campi o in piccole imprese familiari. Numerosi sono i casi di lavoro minorile nel settore del tessile, del vetro, nel settore minerario e molti quelli che portano i ragazzi a finire nel racket della prostituzione. Come sempre è il basso costo economico della manodopera (in questo caso minorile) che ne giustifica l’utilizzo, ma non solo. I bambini, infatti, sono meno coscienti dei propri diritti, più remissivi e quindi più controllabili.

In India, il fenomeno del lavoro minorile continua ad essere ancora molto critico, nonostante i progressi registrati negli ultimi anni e la presenza di un quadro normativo che si sta sviluppando. Per anni l’India ha vissuto l’emergenza dello sfruttamento minorile come una piaga nazionale, poi la presa di coscienza e l’impegno dello Stato assieme agli enti competenti. Tuttavia, nonostante la legislazione nazionale indiana stabilisca con l’articolo 24 della Costituzione che “nessun minore al di sotto dei 14 anni debba essere impiegato nelle fabbriche, nelle miniere e in altre occupazioni pericolose” e vieti, con la legge nazionale del 2006, l’impiego di minori, dopo aver registrato nel 2005 quasi 9 milioni di minori lavoratori fra i 5 e i 14 anni, lo Stato indiano, secondo l’ILO, non avrebbe ancora ratificato due Convenzioni fondamentali sui diritti dell’infanzia: quella “sull’età minima per l’impiego” (Convenzione n. 138, adottata nel 1973 e già stata ratificata dall’80% degli Stati membri) e quella sulle “peggiori forme di lavoro minorile” (Convenzione n. 182, adottata nel 1999 e ratificata dalla quasi totalità degli Stati membri dell’ONU).

Oltre a sollecitare lo Stato indiano affinché possa adeguarsi al più presto agli standard internazionali, l’ILO avrebbe condotto nel quinquennio tra il 2005 e il 2010 delle ricerche nello Stato del Karnataka, nell’India centro-meridionale, con un programma chiamato Karnataka Child Labour Project (KCLP), con l’obiettivo di sostenere il Governo nel combattere le peggiori forme di lavoro minorile e nel ridurre la vulnerabilità degli adolescenti allo sfruttamento economico. Il progetto ha ottenuto importanti risultati, mettendo in campo interventi di assistenza tecnica nei campi dell’istruzione, della formazione e creazione di reddito e dell’ammodernamento delle industrie locali in uno degli Stati federali, Karnataka appunto, in cui il 43% della popolazione vive con un reddito inferiore alla soglia di povertà.

È soprattutto il peso della globalizzazione attraverso la delocalizzazione delle imprese ad attirare le grandi multinazionali verso quei Paesi che offrono politiche fiscali vantaggiose, manodopera (spesso minorile) e salari a basso costo, a fronte di un aumento imponente degli utili e di condizioni di lavoro non idonei agli standard internazionali. Accade ad esempio nell’altra Big asiatica, la Cina, più volte ripresa e condannata dalla società civile e dai media per sfruttamento della manodopera minorile e messa a rischio dei propri lavoratori. È infatti di pochi mesi fa (luglio 2013) la denuncia da parte dell’Organizzazione China Labor Watch (CLW) delle pessime condizioni di lavoro all’interno della fabbrica di Pegatron, a Taiwan, sede della multinazionale delle telecomunicazioni Apple. Pegatron segue dunque le stesse sorti della Foxconn, altra sede Apple, l’industria che si era guadagnata il triste soprannome di “fabbrica dei suicidi” per la serie di tragiche morti di giovani operai sfiniti da condizioni di lavoro degradanti. Tra le 80 violazioni del codice lavorativo fornite dal rapporto investigativo CLW, oltre il lavoro minorile, compaiono anche: abusi, assunzioni discriminatorie, violazioni dei diritti delle donne, orari di lavoro eccessivi, salari insufficienti, preoccupazioni per salute e la sicurezza del lavoro, abuso del management ed inquinamento ambientale.

Non solo lavoro minorile

Secondo l’ILO sarebbero circa 21 milioni le vittime del lavoro coatto nel mondo e si concentrerebbero soprattutto in Asia. Le forme di organizzazione dei lavoratori e le loro proteste in piazza, come le recenti manifestazioni dei dipendenti pubblici nella regione indiana del Kashmir e le richieste di messa in sicurezza a seguito a grandi tragedie causate sul luogo del lavoro (il grave incendio della fabbrica tessile vicino Dhaka in Bangladesh in cui sono morte più di 900 persone è solo l’ultimo episodio), riportano in primo piano la triste condizione di milioni di persone che lavorano in regime di sfruttamento e senza garanzie di sicurezza.

L’economista Tito Boeri, in tema di diritti dei lavoratori e lotta allo sfruttamento dei minori, ha spiegato che nei Paesi in via di sviluppo “il fenomeno è spesso legato all’incapacità dei Governi nazionali di rispettare le regole di base, di far applicare gli standard minimi fissati dall’ILO dove spesso il Governo che detiene quote importanti di alcune grandi aziende, ha tutti gli interessi ad aumentare i profitti di tali aziende e a chiudere un occhio sui controlli, quando invece meriterebbero un’attenzione particolare da parte delle organizzazioni multilaterali nel rispetto degli standard internazionali”.

Concludendo

Nel dibattito socioeconomico sulla recente crescita economica di India e Cina e in seguito all’avvio del processo di riforma dell’economia in direzione neoliberista, che ha permesso a questi due Paesi di diventare, nel giro poco tempo, dei veri e propri colossi asiatici sui mercati internazionali nell’era della Globalizzazione, la questione del lavoro si sta imponendo sempre più con particolare urgenza. L’accelerazione del tasso di crescita del loro PIL durante l’ultimo ventennio non sembra aver generato sufficienti opportunità d’impiego dignitoso. L’aumento della competitività avrebbe portato notevoli squilibri sociali complicandone il quadro che invece potrebbe seguire alcune strade percorribili. Tra le soluzioni di tipo “istituzionale” vi è senza dubbio l’emanazione di Convenzioni internazionali universali al fine di uniformare in tutti i Paesi le leggi sullo sfruttamento del lavoro minorile.

Numerosi sono stati, nel corso degli anni, le misure, le iniziative, le scelte politiche forti sul tema del lavoro e sul lavoro minorile determinando importanti progressi. L’india ad esempio, sebbene non abbia ancora ratificato le due Convezioni ILO come precedentemente detto, ha ufficialmente adottato nel febbraio 2010, assieme alle parti sociali, il proprio Programma Nazionale per il Lavoro Dignitoso, Decent Work Country Programmes (DWCP), con l’obiettivo di rafforzare le opportunità di accesso al lavoro produttivo per tutti, in particolare per i giovani e i gruppi vulnerabili, di estendere la protezione sociale e di eliminare le forme di lavoro forzato e il lavoro minorile.

Oggi, inoltre, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha reso più visibile il problema. Migliaia di siti sensibilizzano l’opinione pubblica, mobilitano le coscienze e favoriscono la denuncia. Ma non basta. La risposta del Governo e della società civile non può non essere quella di puntare sull’investimento di capitale umano per permettere la formazione professionale, l’inserimento lavorativo e la consapevolezza della sicurezza sul lavoro e per debellare lo sfruttamento a qualsiasi livello, poiché come ha detto Mons. Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione della preparazione al seminario promosso dal Papa (Roma, 2-3 novembre 2013) per analizzare il traffico di esseri umani e la schiavitù moderna: “la tratta di esseri umani costituisce un terribile reato contro la dignità umana e una grave violazione dei diritti umani fondamentali” non solo nei Paesi in via di sviluppo o nelle economie emergenti di India e Cina, ma in ogni parte e luogo del pianeta.

Thailandia, tra divisioni interne e istanze di democrazia

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI –  20 gennaio 2014

 

Tra il mese di novembre e di dicembre 2013, in Thailandia circa centomila persone sono scese in piazza per chiedere le dimissioni del governo della Premier Yingluck Shinawatra. La crisi politica aperta dalle proteste antigovernative, a cui si è aggiunto il coro dei parlamentari del Partito Democratico all’opposizione che hanno appoggiato le manifestazioni, ha indotto il Primo Ministro a sciogliere anticipatamente il governo e ad indire nuove elezioni. Una mossa che non è bastata a placare gli animi, surriscaldatisi – inizialmente in maniera pacifica – all’indomani dell’approvazione del disegno di legge sull’amnistia proposto dal Pheu Thai Party (bocciato poi in seconda battuta dal Senato) che avrebbe permesso all’ex Premier Thaksin Shinawatra, fratello di Yingluck ed attualmente in esilio a Dubai, di tornare in Thailandia senza scontare una condanna per corruzione e per appropriazione indebita che gli fu inflitta in contumacia nel 2008.

I manifestanti antigovernativi hanno invaso le strade di Bangkok, marciato verso il Palazzo del Governo e occupato diverse sedi istituzionali, scontrandosi violentemente con la polizia. Intanto in un’intervista televisiva, la Premier Shinawatra, dopo aver ufficializzato la data delle nuove elezioni politiche che si terranno il prossimo 2 febbraio 2014 e aver dichiarato di voler ricandidarsi nuovamente a capo del Pheu Thai, ha fatto appello affinché si ponga fine alle dimostrazioni, dichiarandosi disponibile ad intavolare trattative con l’opposizione. Il leader della protesta Suthep Thaugsuban, ex vice Premier del Partito Democratico, ha dichiarato di non voler fermare le proteste e ha auspicato la formazione di un “Consiglio del popolo” alla guida del Paese. Come se non bastasse, l’opposizione ha annunciato anche la ferma volontà di boicottare le consultazioni ritenendo che un’eventuale partecipazione legittimerebbe un sistema distorto da chi detiene attualmente il potere.

Tale linea politica e l’urlo alla “disobbedienza civile” che si uniscono all’escalation di disordini recente, hanno alimentato la campagna di rovesciamento del governo e hanno accresciuto l’incertezza del futuro politico del Paese. Le autorità thailandesi, infatti, temono un’esplosione di violenza come quella avvenuta lo scorso 26 dicembre, quando in uno scontro tra manifestanti e polizia sono morte quattro persone, o il 17 gennaio quando una bomba è stata fatta esplodere durante un corteo antigovernativo a Bangkok, provocando il ferimento di almeno 39 persone.

Le proteste di questi mesi in Thailandia sono le più violente dalla crisi del 2010. All’epoca il Paese fu sconvolto da una serie di sanguinose manifestazioni messe in atto da migliaia di Camice Rosse, a sostegno dei fratelli Shinawatra, che occuparono il centro di Bangkok per due mesi circa, chiedendo le dimissioni del governo guidato dal Partito Democratico di Abhisit Vejjajiva il quale autorizzò l’esercito a sparare contro i civili, causando la morte di 90 persone, tra le quali il reporter italiano Fabio Polenghi.

Thaksin Shinawatra, al potere dal 2001 al 2005, è un ricco magnate thailandese delle comunicazioni che tuttora gode di grande popolarità tra la popolazione rurale thailandese, nonostante l’esilio, la condanna per corruzione e le accuse di autoritarismo, tradimento, lesa maestà e censura della stampa che lo hanno portato a fuggire nel 2008, in seguito ad un colpo di Stato militare del 2006. Il partito della famiglia Shinawatra ha poi vinto nuovamente le elezioni nel 2011 anche grazie a politiche populiste che hanno portato assistenza sanitaria gratuita, prestiti a basso costo e altri benefici per le zone di campagna a lungo trascurate.

Gli scontri di questi mesi in Thailandia si radicano in un contesto nazionale che vede contrapposte principalmente due fazioni socialmente, culturalmente e geograficamente ben distinte tra loro: a nord del Paese, tra le regioni più povere e popolose, i sostenitori del governo (le Camice Rosse); a sud i movimenti antigovernativi oggi in protesta (le Camice Gialle) che appartengono in larga parte alla borghesia benestante e all’aristocrazia. Tra loro vi sono anche molti giovani universitari di Bangkok, di orientamento conservatore, monarchico e nazionalista, tutti identificati attraverso colori che ne rappresentano il carattere ideologico (religione, monarchia, e nazionalismo): il nero in segno di lutto per la recente morte del Patriarca Somdet Phra Nyanasamvara; il giallo monarchico del sovrano, il Re Bhumipol Adulyadej in carico dal 1946; il tricolore nazionale.

La nuova scia di violenza tra filo-thaksinismo e anti-thaksinismo va inserita peraltro nel più ampio quadro del processo di democratizzazione del Paese asiatico, così come tutte le altre vicende storiche che hanno fatto della Thailandia una realtà segnata da ben 18 colpi di Stato dalla nascita della monarchia costituzionale nel 1932. Uno Stato perciò abituato a convivere con aspri conflitti sociali e lotte civili fratricide.

All’instabilità politica e sociale fa tuttavia da contraltare una certa vivacità economica: negli ultimi decenni la Thailandia ha raggiunto nel 2013 un PIL di circa 425 miliardi di dollari: un risultato che la rende la 36esima economia mondiale per PIL in valore assoluto e attualmente la seconda più grande economia del Sud Est asiatico dopo l’Indonesia. Questa rapida crescita ha portato il Paese a misurarsi con un’economia globalizzata, con la prosperità e la modernità ma non è riuscita ad abbattere il muro di un passato fatto di contraddizioni istituzionali, tradizionali e socioculturali di stampo conservativo e fortemente ideologico. In questo quadro emergono profondi mutamenti economici, sociali e culturali che durante l’era del boom economico hanno rivoluzionato il tessuto sociale e le aspettative dei cittadini, che hanno minacciato l’ideologia di Stato – centrata su una monarchia che esalta il culto della personalità del Re e del potere militare –, che hanno insidiato l’architettura sociale – ancora di tipo gerarchico e piramidale –,  fino a giungere all’ascesa del capitalista Thaksin Shinawatra e ad una nuova concezione economica e sociale più liberalista. Questa ha di fatto quasi esaurito il potere commerciale esercitato da una ristretta élite capitalista sino-thailandese e da un limitato numero di famiglie di mercanti ed industriali che fino a pochi anni fa controllavano incontrastate una buona parte dell’economia nazionale.

I movimenti antigovernativi che oggi protestano contro la famiglia Shinawatra al potere vedono nell’attuale Primo Ministro Yingluck Shinawatra un “burattino” nelle mani del fratello Thaksin, un uomo “corrotto” che avrebbe sfruttato la democrazia per rafforzare il proprio potere e per favorire un certo clientelarismo, nonché un repubblicano che tramerebbe alle spalle del Re.

Le istanze dei manifestanti sono dunque rivolte alla nomina di un governo ad interim che si occupi di riformare il sistema politico e traghettarlo verso un voto ritenuto effettivamente rappresentativo e democratico. La proposta delle Camicie Gialle e delle Camicie Nere si sostanzia pertanto in un Parlamento elettivo al 30% e nominato al 70%. Un ulteriore modello di riferimento potrebbe essere quello adottato ad Hong Kong, dove alla scelta popolare si accompagna una nomina del Capo dell’Esecutivo da parte di un ristretto numero di persone che compongono un Comitato Elettorale di 1200 membri rappresentativi degli ordini professionali e dei principali settori economici della società.

Qualunque sarà l’esito delle elezioni del 2 febbraio, l’attuale crisi politica, l’instabilità e le profonde disuguaglianze economiche continueranno con ogni probabilità ad approfondirsi, non escludendo la possibilità di nuovi scontri e violenze, senza considerare – come le perdite subite dalla moneta nazionale e il calo del mercato azionario interno hanno già evidenziato – le conseguenze anche sul piano economico e finanziario.

Il braccio di ferro tra Australia e Indonesia sull’immigrazione

di Vincenza Lofino | edito da: BloGlobal, OPI –  9 aprile 2014

Si fanno sempre più aspre le relazioni diplomatiche tra Australia e Indonesia in merito alla questione dell’immigrazione clandestina a seguito di alcuni incidenti sul finire dello scorso anno. Si tratta di un tema molto sensibile e non solo dal punto di vista umanitario: tragedie di migranti provenienti dalla vicina Indonesia, si ripetono al largo delle coste australiane e ricordano i recenti scenari che hanno coinvolto i migranti africani diretti a Lampedusa in cerca di fortuna in Italia e in Europa. Sull’annoso problema non si giocano solo le sorti degli immigrati ma anche i destini delle relazioni e degli interessi comuni di Canberra e Jakarta.

La gestione dei flussi migratori

Non è la prima volta che tra Indonesia e Australia si verificano screzi sul tema dell’immigrazione. A scatenare l’ultimo scontro tra i due Paesi è stato il salvataggio di un’imbarcazione carica di 60 rifugiati in prossimità della costa meridionale di Java, in Indonesia, da parte di una nave militare australiana, lo scorso novembre 2013. Il gruppo tratto in salvo è stato poi trasportato nel centro di accoglienza di Christmas Island nell’Oceano Indiano, distante circa 200 miglia dall’Indonesia ma sotto la giurisdizione australiana.

Il Premier australiano e il suo Ministro dell’Immigrazione, Scott Morrison, hanno duramente attaccato in diverse occasioni l’atteggiamento delle autorità indonesiane, accusate di lasciare in mare aperto i barconi di immigrati clandestini. Da parte sua, il governo indonesiano si è giustificato, per voce del Consigliere del vice Presidente, Dewi Fortuna Anwar, spiegando che «non si tratta di Indonesiani ma di persone che hanno attraversato il nostro Paese per raggiungere l’Australia» e ha accusato infine Canberra di interferenze nelle politiche interne degli Stati vicini.

Questo episodio, congiuntamente alla diffidenza australiana nei confronti delle politiche migratorie indonesiane e alle difficoltà nell’affrontare il fenomeno, avrebbe fatto vacillare la già fragile cooperazione in materia di assistenza umanitaria ai profughi. Un accordo bilaterale del 2006 stabilisce infatti forme di cooperazione nella lotta all’immigrazione clandestina e al crimine transnazionale. Canberra aveva, inoltre, pressato l’esecutivo indonesiano affinché si assumesse tale onere dopo che quest’ultima aveva giustificato il rifiuto di accogliere i profughi sollevando il timore di un gravoso ed insostenibile “peso sociale” per il Paese.

 

L’Indonesia, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, è uno Stato sovrappopolato e una meta di transito per i migranti. I profughi diretti verso il Paese del Down Under sono uomini provenienti dai principali teatri di guerra come Iraq, Afghanistan, Somalia e Sri Lanka, ma anche dall’Iran e dal Sud-Est asiatico. Non potendo rimanere in Indonesia a causa delle restrizioni poste dal governo centrale in tema di concessione dello status di rifugiato e di regolarizzazione del fenomeno migratorio clandestino, gli individui vengono respinti verso i Paesi di origine oppure lasciati liberi di poter navigare – ovviamente in forma clandestina – in direzione delle coste australiane. Anche in questo caso, l’ufficio immigrazione australiano, non concedendo lo status di rifugiato politico, trasferisce i boat-people – così vengono definiti i profughi che arrivano a frotte dalla vicina Indonesia e che rappresentano solo il 5% dell’immigrazione verso l’Australia – nel centro di Christmas Island, un’isola ad ovest dell’Australia, appunto, e lì vengono regolarizzati. Tuttavia, a causa del costante aumento dei flussi il centro non è più in grado di sostenere il numero di migranti, tanto da costringere il governo a cercare accordi bilaterali con i Paesi vicini, come Nauru e Papua Nuova Guinea i quali, in cambio di importanti aiuti economici, accolgono gli immigrati clandestini giunti sulle coste australiane.

Dopo l’ennesimo episodio e nonostante le smentite ufficiali da ambo le parti, Jakarta e Canberra avrebbero deciso di avviare delle trattative in materia di immigrazione clandestina in modo da giungere ad un vero e proprio accordo finale, simile a quello ideato dal precedente governo laburista australiano con la Malaysia, ma poi fallito a causa delle pressioni dell’allora opposizione che giudicava l’accordo risibile. L’intesa prevederebbe, in sostanza, l’accoglienza da parte dell’Indonesia di immigrati intercettati dalla marina di Canberra; parimenti l’Australia dovrebbe ospitare sul proprio suolo un certo numero di rifugiati presenti nel Paese asiatico.

Il dibattito sull’immigrazione clandestina ha infiammato la nazione alle ultime elezioni di settembre. Durante la campagna elettorale Abbott aveva promesso un programma di ritorni forzati verso il Paese di origine, in particolare proprio verso l’Indonesia, impiegando se necessario anche le navi della Marina militare per respingere le imbarcazioni di immigrati che arrivano dall’arcipelago in questione esponendoli al grave rischio di provocare una strage in mare, data la precarietà dei mezzi.

A distanza di vent’anni (1992), quando fu introdotta la detenzione obbligatoria per tutti i “non-cittadini illegali” [1], l’Australia resta dunque ferma nell’interdire le sue coste e non sembra intenzionata a modificare la propria politica nei confronti dei migranti irregolari e di respingimento in mare. Si calcola che negli ultimi sei anni oltre 50.000 rifugiati abbiano tentato questo viaggio e che almeno mille di loro abbiano perso la vita.

Nel 2001, il grave caso dei profughi del Tampa, vicino Java, in merito al quale l’Australia si rifiutò di accogliere i 400 profughi afghani salvati poi da un mercantile norvegese, aveva creato un precedente critico agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Per risolvere le controversie, l’Australia aveva poi negoziato un trasferimento forzato dietro compenso nell’Isola di Nauru e, come si accennava poc’anzi, anche con Papua-Nuova Guinea. L’esistenza di micro-Stati satellite interessati a ricevere contropartite economiche in cambio di rifugiati ha, di fatto, facilitato la stipula di accordi di trasferimento.

Le ricadute sul piano interno

Numerose critiche nei confronti della politica anti-immigrazione australiana sono giunte da parte dell’opposizione laburista che ha criticato l’azione del governo in carica denunciando sia il limite normativo nel risolvere le delicate questioni in materia, sia la mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria nei confronti di profughi. Amnesty International ha definito “disumano” il trattamento riservato ai profughi trasportati nei centri di detenzione dell’Isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, già noti per i suoi problemi di sicurezza e di ordine pubblico e per la brutalità dei suoi agenti di polizia. E’ di poche settimane fa (17 febbraio 2014) la notizia di un violento scontro a fuoco tra migranti diretti in Australia, respinti e fermati nei centri di raccolta di Manus e polizia papuana sorvegliante, nel quale sarebbe rimasta uccisa una persona e altre 77 sono rimaste.

Tuttavia, sulla questione immigrazione anche i governi laburisti guidati prima da Julia Gillard e poi da Kevin Rudd hanno commesso numerosi errori. Da un lato, questi auspicavano un’utopica soluzione relativamente alla quale tutti i Paesi di origine dei profughi avrebbero dovuto impegnarsi a trovare una soluzione comune per gestire le migrazioni; dall’altro, le stesse autorità australiane si sono mostrate in realtà più attente nella salvaguardia delle proprie relazioni diplomatiche con i Paesi coinvolti che a cercare con gli stessi soluzioni utili, quantomeno, ad arginare il fenomeno.

D’altra parte i governi laburisti, come oggi i liberali, avevano anch’essi proposto i respingimenti degli immigrati limitando la loro sosta australiana a pochi giorni necessari per predisporre il viaggio di ritorno verso la tappa precedente, solitamente quella indonesiana, e non verso il luogo di origine dei migranti. Gli effetti indesiderati e l’aumento di nuovi arrivi avevano di fatto rimesso in discussione e posto sotto critica i governi laburisti da parte dei gruppi conservatori fino alla loro caduta.

I limiti della Cooperazione Multilaterale

Affrontare il problema dell’immigrazione clandestina con provvedimenti drastici ed evitare di essere considerata una facile meta mostrandosi intollerante a livello internazionale è stata la preoccupazione principale dell’Australia nell’ultimo decennio.

Secondo le cifre fornite dal Dipartimento australiano per l’Immigrazione, nel 2010 sono giunti 6.535 immigrati, nel 2011 4.565, fino ad arrivare all’ultimo biennio in cui gli immigrati sono aumentati fino a 17.012 nel 2012 e a 11.017 nel 2013 (dati fino al 7 giugno).

Il numero sempre crescente delle richieste di asilo provenienti soprattutto dall’Indonesia ha complicato ulteriormente i rapporti tra i due Paesi, allontanando una soluzione condivisa sul tema. Jakarta sembra tuttavia aver accettato negli ultimi anni un approccio multilaterale che preveda il coinvolgimento dei Paesi di origine e di transito, simile a quanto avviene in Europa in tema di immigrazione clandestina.

Da qui il Bali Process, avviato nel 2002, che vede Australia e Indonesia seduti allo stesso tavolo assieme ad altri Paesi asiatici e alle organizzazioni internazionali impegnate nel contrasto ai traffici illeciti e nella tutela dei migranti e dei rifugiati. Proprio il forum internazionale rappresenta un limite nell’azione di contrasto al fenomeno perché fondato su intese regionali non vincolanti di trattamento dei richiedenti asilo che prevedono il loro successivo rimpatrio volontario o la sistemazione in Stati diversi da quello di ingresso.

Sebbene sia di fondamentale importanza lo sforzo di coinvolgere le istituzioni internazionali nel raggiungimento di un accordo sulla gestione dei flussi migratori e sulla salvaguardia delle persone in pericolo in mare, la dimensione del servizio di ricerca e soccorso (Search and Rescue, SAR), resta materia riservata alle competenze dei singoli Stati secondo gli strumenti internazionali vigenti come la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM, 1982), ratificata anche da Australia e Indonesia; la Convenzione sulla salvaguardia della vita in mare (SOLAS, 1965), la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (SAR, 1979) e la Convenzione sul soccorso in mare (1989).

Sta dunque ai due Paesi trovare un’intesa tutelando il reciproco interesse istituzionale, salvaguardando i rapporti diplomatici e, soprattutto, le vite umane.

 

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[1] Secondo l’Australian Nationality Law i cosiddetti “unlawful non-citizens” sono quegli individui che vivono in Australia o sono residenti permanenti; residenti temporanei; o soggiornano illegalmente. Per un maggiore approfondimento sul tema si veda, http://www.immi.gov.au/media/fact-sheets/86overstayers-and-other-unlawful-non-citizens.htm

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