
Volver sindrome del magone moderno
- Vincenza Lofino
- 2 settembre 2014
Volver? Sindrome del magone moderno Il passaggio assicurato da/per l’aeroporto di Brindisi ogni santa volta; la birra piccola a 2 euro e il barista generoso (come molti qui) che ti rassicura: “quando sei qua, non devi tirare fuori ‘na lira!”.
Per gli spostamenti interni c’è l’auto in prestito che non manca mai. Non mancano mai neanche le mancette del nonno che ti farebbero sentire giovane anche a 40 anni; il dialetto che ti rende autenticamente “del posto” e che senti parlare ovunque e da chiunque, persino dal sindaco che incroci nella piazza del paese a discutere con alcuni. Due minuti in bicicletta e hai i campi di ulivi di qua e il mare a pochi km di là; gli abbracci dei cugini e le sane risate con le amiche che sono rimaste; la lentezza nel dire e nel fare; lo stress che non esiste; quella vita ritmata per forza diversamente. I pranzi dalle zie e qualche cena fuori in più che, qui, puoi permetterti… ma a che serve? C’è il “ristorante” della mamma sempre aperto e sempre ricco; le paste di mandorle della prozia; il limoncello fatto in casa. Sono stata da Dio quest’estate.
Poi però la fame passa e il pasto rimane indigesto.
In questi giorni sono riapparsi i fantasmi di sempre e io, come spesso è successo, non ho avuto paura di affrontare, neanche questa volta. In famiglia si discute di quei temi “tabu” che fanno tanto imbarazzare e nascondere dietro un dito. Fa paura parlare di morte; emancipazione della donna (nella fattispecie sposata); malattia e omosessualità, messe accanto di proposito, perché dove abito io, sono purtroppo ancora tristemente associate e stigmatizzate; ghettizzate neanche si tornasse al Lazzaretto. Questo connubio, più di ogni altro tabu già di suo angosciante, strazia e fa star male. Soprattutto quando lo si vive da vicinissimo.
Terrorizza la figura dello psicologo, la psicoanalisi; l’illegalità dilagante e la mafia che mi circonda; l’inconsapevolezza (?) di tutti quegli atteggiamenti omertosi che abitano il “mio” quartiere, senza pudore, fingendo il contrario.
“Tu parli troppo. Tu non puoi capire.”
Di nuovo riparto da casa verso casa. Quella che ho scelto. Eppure non sarà come tutte le altre volte. È vero, le movenze sono le stesse da 11 anni: senza indugio ho imbracciato lo zaino anche questa volta, salutando la casa dei miei, abituata a voltarmi con il corpo, ma mai totalmente con il cuore e con la mente.
Sarà che i legami vanno moltiplicandosi. Nei giorni scorsi, gli affetti si sono manifestati in tutta la loro potenza, le amicizie sono diventate più importanti. Tante le conferme.
Tanti anche gli argomenti da affrontare. Le spire del nodo sono sempre più difficili da sciogliere quando cresci. Si sono intricate e i suoi avvolgimenti rimangono più stretti in gola.
Gli anni passati lontano da casa fanno acquistare più punti in schiettezza e molti altri meno in discrezione. Ora le cose lasciate in sospeso fanno più soffrire. Non tollero più. Sarà per questo che andare via è stato più difficile del solito. O forse è vero che non riesco a capire tutto fino in fondo.
Ho urlato anche questa volta e poi l’ho fatto di nuovo: ho tracciato una linea che divide simmetricamente il foglio e mi sono arresa a quell’analisi dicotomica che non dà scampo: qui, quello che ho già dato al mio paesello, alla mia terra; là, quello che potrei ancora dare, se un giorno tornassi.
“Tanto prima o poi tornerai. Tutti prima o poi tornano!” mi ha sentenziato qualcuno, qualche sera fa in un pub. A ricordarmi che da dove vengo, il linguaggio si fa semplice e concreto (seppur spesso vago e volutamente illusorio) e dannatamente universale e generalista. Tutti chi? Cosa vi rende così convinti?
“Quel desiderio di essere come tutti” (F. Piccolo) e di scoprirsi invece completamente diversi, in una terra che non può essere solo mare stupendo e ulivi secolari, ma un posto che deve ricominciare a rispettare e a riapprezzare la diversità senza la paura di alienarsi o snaturalizzarsi per la presenza del “nuovo”; che non è minaccia, ma “opportunità”; che può voler dire scoprirsi migliori; che non vuol dire perdita automatica di quell’autenticità che è scritta nelle sue radici.
Quel senso di radici, come a dire il “già noto”; l’identità di una terra con tutti i suoi limiti e i suoi pregi che ogni uomo e ragazzino, capitato da queste parti, conosce perfettamente da quando è nato e ha imparato ad accettare, o a farsi stare bene, a seconda dei caratteri o della propria volontà d’animo.
Il processo è lento. Chissà, il cambiamento progressivo verso una società che accetta tutte le molteplicità (culturali, sessuali, di pensiero) avverrà e lo si vedrà in pratica prima o poi sul serio, nel rispetto dei tempi e quando questi saranno maturi per ognuno. Solo allora, diversa tra i diversi, potrò credere di tornare. E restare.
Rezze sanvitesi (San Vito dei Normanni, prov. di Brindisi) Rezze sanvitesi (San Vito dei Normanni, prov. di Brindisi) Volver? Sindrome del magone moderno Il passaggio assicurato da/per l’aeroporto di Brindisi ogni santa volta; la birra piccola a 2 euro e il barista generoso (come molti qui) che ti rassicura: “quando sei qua, non devi tirare fuori ‘na lira!”.
Per gli spostamenti interni c’è l’auto in prestito che non manca mai. Non mancano mai neanche le mancette del nonno che ti farebbero sentire giovane anche a 40 anni; il dialetto che ti rende autenticamente “del posto” e che senti parlare ovunque e da chiunque, persino dal sindaco che incroci nella piazza del paese a discutere con alcuni. Due minuti in bicicletta e hai i campi di ulivi di qua e il mare a pochi km di là; gli abbracci dei cugini e le sane risate con le amiche che sono rimaste; la lentezza nel dire e nel fare; lo stress che non esiste; quella vita ritmata per forza diversamente. I pranzi dalle zie e qualche cena fuori in più che, qui, puoi permetterti… ma a che serve? C’è il “ristorante” della mamma sempre aperto e sempre ricco; le paste di mandorle della prozia; il limoncello fatto in casa. Sono stata da Dio quest’estate.
Poi però la fame passa e il pasto rimane indigesto.
In questi giorni sono riapparsi i fantasmi di sempre e io, come spesso è successo, non ho avuto paura di affrontare, neanche questa volta. In famiglia si discute di quei temi “tabu” che fanno tanto imbarazzare e nascondere dietro un dito. Fa paura parlare di morte; emancipazione della donna (nella fattispecie sposata); malattia e omosessualità, messe accanto di proposito, perché dove abito io, sono purtroppo ancora tristemente associate e stigmatizzate; ghettizzate neanche si tornasse al Lazzaretto. Questo connubio, più di ogni altro tabu già di suo angosciante, strazia e fa star male. Soprattutto quando lo si vive da vicinissimo.
Terrorizza la figura dello psicologo, la psicoanalisi; l’illegalità dilagante e la mafia che mi circonda; l’inconsapevolezza (?) di tutti quegli atteggiamenti omertosi che abitano il “mio” quartiere, senza pudore, fingendo il contrario.
“Tu parli troppo. Tu non puoi capire.”
Di nuovo riparto da casa verso casa. Quella che ho scelto. Eppure non sarà come tutte le altre volte. È vero, le movenze sono le stesse da 11 anni: senza indugio ho imbracciato lo zaino anche questa volta, salutando la casa dei miei, abituata a voltarmi con il corpo, ma mai totalmente con il cuore e con la mente.
Sarà che i legami vanno moltiplicandosi. Nei giorni scorsi, gli affetti si sono manifestati in tutta la loro potenza, le amicizie sono diventate più importanti. Tante le conferme.
Tanti anche gli argomenti da affrontare. Le spire del nodo sono sempre più difficili da sciogliere quando cresci. Si sono intricate e i suoi avvolgimenti rimangono più stretti in gola.
Gli anni passati lontano da casa fanno acquistare più punti in schiettezza e molti altri meno in discrezione. Ora le cose lasciate in sospeso fanno più soffrire. Non tollero più. Sarà per questo che andare via è stato più difficile del solito. O forse è vero che non riesco a capire tutto fino in fondo.
Ho urlato anche questa volta e poi l’ho fatto di nuovo: ho tracciato una linea che divide simmetricamente il foglio e mi sono arresa a quell’analisi dicotomica che non dà scampo: qui, quello che ho già dato al mio paesello, alla mia terra; là, quello che potrei ancora dare, se un giorno tornassi.
“Tanto prima o poi tornerai. Tutti prima o poi tornano!” mi ha sentenziato qualcuno, qualche sera fa in un pub. A ricordarmi che da dove vengo, il linguaggio si fa semplice e concreto (seppur spesso vago e volutamente illusorio) e dannatamente universale e generalista. Tutti chi? Cosa vi rende così convinti?
“Quel desiderio di essere come tutti” (F. Piccolo) e di scoprirsi invece completamente diversi, in una terra che non può essere solo mare stupendo e ulivi secolari, ma un posto che deve ricominciare a rispettare e a riapprezzare la diversità senza la paura di alienarsi o snaturalizzarsi per la presenza del “nuovo”; che non è minaccia, ma “opportunità”; che può voler dire scoprirsi migliori; che non vuol dire perdita automatica di quell’autenticità che è scritta nelle sue radici.
Quel senso di radici, come a dire il “già noto”; l’identità di una terra con tutti i suoi limiti e i suoi pregi che ogni uomo e ragazzino, capitato da queste parti, conosce perfettamente da quando è nato e ha imparato ad accettare, o a farsi stare bene, a seconda dei caratteri o della propria volontà d’animo.
Il processo è lento. Chissà, il cambiamento progressivo verso una società che accetta tutte le molteplicità (culturali, sessuali, di pensiero) avverrà e lo si vedrà in pratica prima o poi sul serio, nel rispetto dei tempi e quando questi saranno maturi per ognuno. Solo allora, diversa tra i diversi, potrò credere di tornare. E restare.
Rezze sanvitesi (San Vito dei Normanni, prov. di Brindisi) Rezze sanvitesi (San Vito dei Normanni, prov. di Brindisi)