
Comunità senza confini
- Vincenza Lofino
- 9 maggio 2020
Edito da: Kamala Magazine – 09/05/2020
Che il Coronavirus abbia impattato sulla nostra vita pubblica e privata, e sulla mia, posso testimoniarlo direttamente e in prima persona. Sono Vincenza, 35 anni di Milano (originariamente salentina, di Brindisi) e sono una volontaria internazionale di Croce Rossa tedesca con base a Lomé, Togo, in quell’Africa sub-sahariana, lato francese, in cui per contratto sarei dovuta restare fino a fine luglio, e ora rimpatriata per motivi di (in)sicurezza sanitaria.
La Deutsches Rotes Kreuz non appena ha colto la portata, non più solo europea, ma globale del virus, e nell’eventualità –ora non più remota- che in Africa esplodesse un’epidemia come quella in Europa, con il rischio di non poter affrontare una crisi sanitaria di tale portata per mancanza strutturale e gestionale, è stata tra le prime Organizzazioni internazionali che ha prontamente richiesto l’evacuazione immediata di tutto il suo personale volontario, prima, e staff poi.
Ogni volontario quindi è rientrato in Europa, ognuno nel proprio paese. Il punto di domanda per i tedeschi era proprio sul mio caso: farmi o non farmi rientrare in Italia? E soprattutto Milano dove ho casa, ma dove anche il virus è (ancora) di casa? Proprio qui dove, almeno agli inizi, si è sviluppato il focolaio maggiore d’Italia?
Alla fine il rientro c’è stato ed è stato molto strano per me. Ecco, “stranita” è il termine che utilizzo per descrivere una sensazione che dall’estero non si coglieva così profondamente –sempre agli inizi, intendo.
Ritornare nella mia città e vederla svuotata in strada di persone, mezzi pubblici, auto, moto e bici, in una città notoriamente caotica e frettolosa ed “essere accolta” in aeroporto da squadre dispiegate di volontari sanitari armati di thermo-flash (usati per la misurazione della temperatura corporea senza contatto) e da taxi guidati da uomini in mascherina che imbarcano la valigia, ma ti tengono a debita distanza, be’, da’ un certo effetto di straniamento e confusione.
Cosa sta succedendo alla mia città? Cosa al mio quartiere? Il mio social housing di Milano, quello in cui abito, è social per definizione; ma i miei vicini sono scomparsi, così come i tanti bambini che si aggirano nella coorte e nel parchetto centrale per giocare tra di loro e con le famiglie.
Tutto ciò mi ha lasciata un pesante senso di angoscia non appena arrivata a casa, tanto da farmi rimpiangere i bei tempi del mio habitat social al quale sono abituata da sempre ogni volta che rientro da una missione, e che oggi viene naturalmente sconvolto da questa nuova situazione. La domanda di rito (“Allora in Africa, com’è andata?”) e l’aperitivo consueto di rientro, questa volta, sono mancati entrambi; ma per non perdere il morale ho cercato internamente le “risorse” per fronteggiare al meglio questo comune periodo di quarantena di cui non se ne conosce ancora la fine.
E alla domanda che mi è stata posta per scrivere questo contributo “Come stai vivendo questo momento difficile?”, non me la sento di dare consigli che non rispondono alle esigenze degli altri, ma solo alle mie. Semplicemente faccio; tante cose, e diverse che mi tengano distratta da una situazione d’inattività costretta che, se non sapessi come affrontare, mi darebbe fuori di matto. E allora scrivo, leggo, studio le lingue, le pratico chiamando i miei amici lontani, continuo a lavorare part-time con il telelavoro, ascolto podcast e la radio e faccio tutti quei lavori in casa (di stra-ordinaria amministrazione) che ammetto di aver trascurato negli ultimi anni in cui sono stata via.
Mi ricordo della tesi iniziale che mi è stata chiesta: “Mai come in questo momento stiamo, forse anche inconsciamente e spontaneamente, vivendo un nuovo concetto di comunità. Tutti uniti, da ogni parte del mondo, di fronte a un nemico che non ha colore né frontiere”; perciò voglio ricordare che la mia realtà abitativa è differente perché è social -per definizione- e resiste per fortuna agli eventi; perciò ci capita di organizzare aperitivi a distanza, attività florovivaistiche a turni (abbiamo gli orti e le fioriere in comune) e improvvisiamo conversazioni tra balconi e sui ballatoi, proprio come si faceva una volta con le vecchie case di ringhiera -al Nord- o con la tradizione delle piccole realtà di paese al Sud, quando si viveva in tanti in uno spazio circoscritto e ci si raccontava seduti sulla soglia di casa.
Forse appunto il virus ci sta insegnando qualcosa di nuovo a livello personale: la nuova conoscenza di sé e il dialogo con le tante anime che abitano la casa, cioè con un nuovo sé (o con i propri tanti sé) e con gli altri membri della casa e le loro personalità.
…E a livello pubblico: vedi la smaterializzazione degli uffici e della carta; la digitalizzazione dell’amministrazione pubblica; l’importantissimo ruolo dello smart-working e della smart-school che abbiamo scoperto con un imperdonabile ritardo rispetto ad altri paesi e le infinite possibilità della comunicazione online che abbatte tutte le barriere ecc..
Anzi, senz’altro questo virus ci lascerà questa ricca eredità, fiancheggiata dalla tecnologia che ci supporta e va al passo con i tempi moderni, ma ci sta facendo anche riscoprire il senso di comunità oppure, scoprire un nuovo senso del vivere la comunità, resistente al tempo …e al virus.
A parte i risvolti negativi che ho volutamente evitato di menzionare, non perché ne ignoro i dati della tragedia (ci pensano già le radio e i media a ricordarci ogni giorno alle 18, la conta dei morti); ma perché credo che si possa e si debba ricordare il lato positivo della vicenda, e non perché sono (forse) un’inguaribile idealista, ma perché, ho scelto di vivermela diversamente; lo si voglia ammettere o meno, al polo negativo di un qualsiasi magnete corrisponderà sempre un polo positivo, uno yang, un giorno nuovo, un lato ottimistico di vedere e vivere le cose. Edito da: Kamala Magazine – 09/05/2020
Che il Coronavirus abbia impattato sulla nostra vita pubblica e privata, e sulla mia, posso testimoniarlo direttamente e in prima persona. Sono Vincenza, 35 anni di Milano (originariamente salentina, di Brindisi) e sono una volontaria internazionale di Croce Rossa tedesca con base a Lomé, Togo, in quell’Africa sub-sahariana, lato francese, in cui per contratto sarei dovuta restare fino a fine luglio, e ora rimpatriata per motivi di (in)sicurezza sanitaria.
La Deutsches Rotes Kreuz non appena ha colto la portata, non più solo europea, ma globale del virus, e nell’eventualità –ora non più remota- che in Africa esplodesse un’epidemia come quella in Europa, con il rischio di non poter affrontare una crisi sanitaria di tale portata per mancanza strutturale e gestionale, è stata tra le prime Organizzazioni internazionali che ha prontamente richiesto l’evacuazione immediata di tutto il suo personale volontario, prima, e staff poi.
Ogni volontario quindi è rientrato in Europa, ognuno nel proprio paese. Il punto di domanda per i tedeschi era proprio sul mio caso: farmi o non farmi rientrare in Italia? E soprattutto Milano dove ho casa, ma dove anche il virus è (ancora) di casa? Proprio qui dove, almeno agli inizi, si è sviluppato il focolaio maggiore d’Italia?
Alla fine il rientro c’è stato ed è stato molto strano per me. Ecco, “stranita” è il termine che utilizzo per descrivere una sensazione che dall’estero non si coglieva così profondamente –sempre agli inizi, intendo.
Ritornare nella mia città e vederla svuotata in strada di persone, mezzi pubblici, auto, moto e bici, in una città notoriamente caotica e frettolosa ed “essere accolta” in aeroporto da squadre dispiegate di volontari sanitari armati di thermo-flash (usati per la misurazione della temperatura corporea senza contatto) e da taxi guidati da uomini in mascherina che imbarcano la valigia, ma ti tengono a debita distanza, be’, da’ un certo effetto di straniamento e confusione.
Cosa sta succedendo alla mia città? Cosa al mio quartiere? Il mio social housing di Milano, quello in cui abito, è social per definizione; ma i miei vicini sono scomparsi, così come i tanti bambini che si aggirano nella coorte e nel parchetto centrale per giocare tra di loro e con le famiglie.
Tutto ciò mi ha lasciata un pesante senso di angoscia non appena arrivata a casa, tanto da farmi rimpiangere i bei tempi del mio habitat social al quale sono abituata da sempre ogni volta che rientro da una missione, e che oggi viene naturalmente sconvolto da questa nuova situazione. La domanda di rito (“Allora in Africa, com’è andata?”) e l’aperitivo consueto di rientro, questa volta, sono mancati entrambi; ma per non perdere il morale ho cercato internamente le “risorse” per fronteggiare al meglio questo comune periodo di quarantena di cui non se ne conosce ancora la fine.
E alla domanda che mi è stata posta per scrivere questo contributo “Come stai vivendo questo momento difficile?”, non me la sento di dare consigli che non rispondono alle esigenze degli altri, ma solo alle mie. Semplicemente faccio; tante cose, e diverse che mi tengano distratta da una situazione d’inattività costretta che, se non sapessi come affrontare, mi darebbe fuori di matto. E allora scrivo, leggo, studio le lingue, le pratico chiamando i miei amici lontani, continuo a lavorare part-time con il telelavoro, ascolto podcast e la radio e faccio tutti quei lavori in casa (di stra-ordinaria amministrazione) che ammetto di aver trascurato negli ultimi anni in cui sono stata via.
Mi ricordo della tesi iniziale che mi è stata chiesta: “Mai come in questo momento stiamo, forse anche inconsciamente e spontaneamente, vivendo un nuovo concetto di comunità. Tutti uniti, da ogni parte del mondo, di fronte a un nemico che non ha colore né frontiere”; perciò voglio ricordare che la mia realtà abitativa è differente perché è social -per definizione- e resiste per fortuna agli eventi; perciò ci capita di organizzare aperitivi a distanza, attività florovivaistiche a turni (abbiamo gli orti e le fioriere in comune) e improvvisiamo conversazioni tra balconi e sui ballatoi, proprio come si faceva una volta con le vecchie case di ringhiera -al Nord- o con la tradizione delle piccole realtà di paese al Sud, quando si viveva in tanti in uno spazio circoscritto e ci si raccontava seduti sulla soglia di casa.
Forse appunto il virus ci sta insegnando qualcosa di nuovo a livello personale: la nuova conoscenza di sé e il dialogo con le tante anime che abitano la casa, cioè con un nuovo sé (o con i propri tanti sé) e con gli altri membri della casa e le loro personalità.
…E a livello pubblico: vedi la smaterializzazione degli uffici e della carta; la digitalizzazione dell’amministrazione pubblica; l’importantissimo ruolo dello smart-working e della smart-school che abbiamo scoperto con un imperdonabile ritardo rispetto ad altri paesi e le infinite possibilità della comunicazione online che abbatte tutte le barriere ecc..
Anzi, senz’altro questo virus ci lascerà questa ricca eredità, fiancheggiata dalla tecnologia che ci supporta e va al passo con i tempi moderni, ma ci sta facendo anche riscoprire il senso di comunità oppure, scoprire un nuovo senso del vivere la comunità, resistente al tempo …e al virus.
A parte i risvolti negativi che ho volutamente evitato di menzionare, non perché ne ignoro i dati della tragedia (ci pensano già le radio e i media a ricordarci ogni giorno alle 18, la conta dei morti); ma perché credo che si possa e si debba ricordare il lato positivo della vicenda, e non perché sono (forse) un’inguaribile idealista, ma perché, ho scelto di vivermela diversamente; lo si voglia ammettere o meno, al polo negativo di un qualsiasi magnete corrisponderà sempre un polo positivo, uno yang, un giorno nuovo, un lato ottimistico di vedere e vivere le cose.