Myanmar: è democrazia senza i diritti delle minoranze razziali?

di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 19 marzo 2013

 

Il processo di riforme avviato dal governo birmano del generale Thein Sein, e tra queste la legalizzazione della LND, la promessa di elezioni politiche, l’impegno di scarcerazione di tutti i prigionieri politici e l’allentamento della censura, sembrava aver dato forti segnali di cambiamento che facevano sperare nella democratizzazione del Myanmar (ex Birmania).

Il Paese però sembrerebbe essere lontano da un radicale cambio di regime: se le scorse elezioni legislative hanno segnato la fine della dittatura militare e inaugurato “un’era di transizione” per portare il Paese alla democrazia, il segnale sembrerebbe non essere bastato: il governo infatti si ritrova ancora oggi con i protagonisti dell’antica giunta militare che hanno la maggioranza parlamentare, garantita da una clausola della Costituzione che assegna loro il 25% dei seggi, con un presidente che è l’ex dittatore e un’opposizione rappresentata dalla leader del movimento democratico, Aung San Suu Kyi, quest’ultima al seggio in Parlamento in seguito alle elezioni legislative del 2012, dopo più di 15 anni trascorsi agli arresti domiciliari.

Nonostante le promesse di apertura alle riforme democratiche, le speranze e i dubbi sul futuro del processo democratico attraverserebbero ancora oggi la società birmana. Persistono le critiche nei confronti della mancata liberazione di decine di prigionieri politici da parte del governo accusato dall’ONG Associazione per i Popoli Minacciati (APM) di ambiguità nei confronti dell’opinione pubblica internazionale; della mancata libertà di stampa e di informazione (la stessa Suu Kyi, ha fatto sapere a Radio Free Asia che le autorità avrebbero censurato parte di un suo discorso per la televisione di Stato durante la campagna elettorale in cui accusava la precedente giunta di abuso di potere). Inoltre persistono le polemiche che riguardano i conflitti etnico-religiosi e le critiche nei confronti delle persecuzioni di alcune minoranze razziali.

I conflitti etnico-religiosi

Nello Stato di Rakhine, nel nord-ovest del Paese, l’ONU parla di aggressioni e di violenze indiscriminate da parte della comunità buddista di etnia Rakhine nei confronti della minoranza musulmana di etnia Rohingya, a cui viene tuttora negato il riconoscimento della cittadinanza birmana. Un diritto negato nonostante la comunità viva da tre generazioni e conti circa 800 mila persone nell’intero Myanmar. Per il governo birmano, i musulmani, la cui situazione è salita alla ribalta delle cronache internazionali, sarebbero immigrati irregolari provenienti da nord-ovest, dal vicino Bangladesh.

La difficile convivenza tra buddisti e musulmani si è scatenata in violenza lo scorso giugno 2012, provocando la morte di 180 persone e oltre 110.000 profughi. Oggi i musulmani Rohingya detti “boat people” ovvero i migranti via mare, non potendo più contare sul loro futuro nel loro Paese, sarebbero scappati dalle proprie case, chi cercando rifugio nei campi profughi in condizioni di ristrettezze di cibo ed acqua, chi tentando la fuga verso la lontana Malaysia, paese musulmano raggiungibile per mare.

I musulmani sarebbero visti come invasori e colonizzatori della cultura birmana e i buddisti si sentirebbero minacciati da loro e dalle loro tradizioni come quella della macellazione della carne di tipo halal, gesto che offenderebbe i fedeli di Buddha e porterebbe il Paese, secondo U Oo Hla Saw, segretario generale del Partito dello sviluppo del Rakhine, ad un elevato rischio d’islamizzazione del Paese. Immediata la risposta dei musulmani in Parlamento che chiedono di agire per garantire la sopravvivenza dei fedeli e la critica sollevata dall’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) che teme un ulteriore esodo verso i paesi confinanti.

Preoccupazioni espresse anche da parte delle organizzazioni non governative, come Amnesty International e dalle agenzie ONU per i diritti umani. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione non vincolante che esprime timore per gli scontri etnico-religiosi in Myanmar e chiede al governo di agire per migliorare la situazione dei musulmani Rohingya, esortandolo “a proteggere tutti i diritti dei musulmani, compreso il diritto di cittadinanza”. Il governo birmano però non avrebbe gradito questa risoluzione in quanto conterrebbe “supposizioni non veritiere e non verificate” nonostante le violenze in corso dallo scorso giugno 2012, rifiutando il termine “minoranza” riferito ai musulmani in quanto per la legge locale non verrebbero considerati come gruppo etnico a sé stante.

Intanto da Strasburgo, anche il Parlamento europeo si fa sentire sulla tragica vicenda del gruppo etnico Rohingya, adottando il 13 settembre 2012 una Risoluzione sulla persecuzione dei musulmani e in particolare sul persistere della violenza nello Stato di Rakhine.

La guerra ai Kachin e agli Shan

L’offensiva dei militari ai danni dello Stato federale di Kachin, al confine con la Cina, è partita nel giugno 2011 con la fine di una tregua durata più di un decennio, provocando migliaia di vittime e centinaia di migliaia di sfollati in fuga verso la Cina, con l’obiettivo di impedire la costruzione di una base militare dell’esercito Kachin a Laiza.

L’ammissione dei bombardamenti aerei da parte dell’esercito birmano sembra giustificare un’azione di difesa dell’aviazione nei confronti di un popolo, i Kachin, dotato di un esercito proprio, i Kachin Indipendence Army (Kia) e di un territorio interessato dalla costruzione della discussa diga di Myitsone sul fiume Irrawaddy, un progetto congiunto fra il Ministero birmano dell’industria, Asia World e la China Power Investment Corporation, gigante cinese dell’energia che oltre al Myanmar, dovrebbe rifornire anche la provincia cinese dello Yunnan.

Il progetto però avrebbe scatenato le ire dei Kachin, contrari alla nascita dell’impianto, perché causa dello spostamento forzato di 15mila abitanti. Non diversamente va con gli Shan, un gruppo etnico che prende il nome dallo Stato Shan, a est del Paese al confine con Cina, Laos e Thailandia, coinvolti nell’offensiva contro i Kachin. Il movimento dei ribelli Shan State Army-South (SSA-S) ha recentemente dichiarato, tramite il Democratic Voice of Burma, l’emittente radio-televisiva per l’informazione indipendente, che forze governative avrebbero invaso il territorio dello Stato Shan, non rispettando il cessate-il-fuoco siglato nel novembre 2011 dal governo centrale, l’opposizione e da tutti i gruppi etnici, tra cui gli stessi Shan. Inoltre denunciano che da quando è stato firmato l’accordo, sarebbero stati registrati oltre 50 scontri nel proprio territorio.

Conclusioni: una democrazia immatura

Lo storico passaggio politico-istituzionale del Myanmar, da regime militare che controllava il paese e l’economia fin dal 1988 ad un governo democratico nel 2011, ha incoraggiato l’economia del Paese che ha cominciato a registrare buoni tassi di crescita e un consistente afflusso di investimenti stranieri attirati dalla disponibilità sia di manodopera a prezzi convenienti sia di risorse naturali generose.

Le ombre rappresentate dalla repressione contro alcune delle minoranze del Paese, tuttavia, minacciano la credibilità ottenuta con le elezioni legislative del 2010: secondo alcune fonti, sarebbe evidente l’interesse dei militari a fomentare gli scontri armati e il loro offrirsi come unica soluzione agli scontri armati che loro stessi creerebbero, assecondando ataviche rivalità etniche, come nel caso della comunità apolide dei Rohingya, considerata dall’ONU una delle più perseguitate al mondo.

Secondo Meridiani Relazioni Internazionali, il più grande “miracolo democratico” rappresentato dal Myanmar, sarebbe da ricondurre a un’operazione di immagine funzionale al miglioramento della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Cina. Quest’ultima avrebbe interesse nell’equilibrio interno al Myanmar sia per questioni legate alla sicurezza pubblica (la riduzione della conflittualità condotta contro i gruppi ribelli avrebbe l’effetto di placare i disagi creati dal flusso migratorio di migliaia di profughi birmani riversati nelle aree di confine cinese) e alla sicurezza energetica (il passaggio di oleodotti dal territorio birmano faciliterebbe e abbrevierebbe l’approvvigionamento di greggio dal Medio Oriente e dall’Africa. La stessa importanza ricoprirebbero gli investimenti cinesi sul territorio birmano soprattutto nel settore energetico e delle infrastrutture).

L’evoluzione politica del Myanmar piace anche agli USA, sia perché si tratta di una dittatura in meno, sia perché l’apertura del mercato birmano ha spianato la strada anche a molte aziende statunitensi. Tutto questo avverrebbe con la sostanziale complicità degli Stati Uniti e sul consenso dell’opposizione “democratica” la quale sembrerebbe non essersi pronunciata in merito al tema complesso delle minoranze perseguitate, come quello dei Rohingya. Sull’argomento, Aung San Suu Kyi si sarebbe limitata a proporre il sistema di federazione delle minoranze proposto dal padre, che fu presidente prima del colpo di Stato dei militari del 62’, dimostrandosi patriottica e in linea alla maggioranza del Paese.

San Suu Kyi in una breve dichiarazione alla stampa durante la visita ufficiale del Presidente Obama dello scorso novembre, la prima di un presidente americano in carica nel Paese asiatico, ha invitato tutti alla prudenza, ricordando che “Il momento più difficile in una fase transizione è quando il successo è in vista” senza essere ingannati dal “miraggio del successo”.

L’Associazione per i Popoli Minacciati ha approfittato dell’attenzione mediatica che ha investito il Paese con la visita di Obama per auspicare una reale democratizzazione della politica birmana, anche nei confronti di tutte le minoranze del paese. APM si è anche appellata al presidente statunitense affinché durante la sua visita chieda il riconoscimento e il conferimento della cittadinanza birmana per i Rohingya perseguitati. Il suggerimento non è sfuggito al presidente Obama che aveva pubblicamente riconosciuto il “ruolo chiave” di San Suu Kyi per il “futuro del suo Paese”, invitando il Paese adesso ad un ulteriore e decisiva svolta democratica e rivolgendo un appello solenne affinché si fermino al più presto le violenze inter-etniche.

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