Birmania: l’ascesa politica di Aung San Suu Kyi e l’apertura democratica

di Vincenza Lofino | edito da: Equilibri.net – 7 luglio 2012

 

Un trionfo storico per il Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, eletta parlamentare lo scorso 1 aprile 2012 grazie a un voto suppletivo, che ha assegnato alla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) 44 seggi su 45 totali dove il partito dell’attivista birmana ha presentato propri candidati e che ha consentito alla sua leader di ottenere nella sua circoscrizione di Kawhmuha l’82% dei voti.

Si tratta delle seste elezioni dalla proclamazione dell’indipendenza (1947) in Birmania e potrebbero segnare una tappa importante nel cammino del Paese asiatico verso la democrazia. Questo risultato rappresenta lo spartiacque rispetto a più di un ventennio di repressione: dalla rivolta studentesca del 1988 alla “rivoluzione zafferano” dei monaci del 2007 e ora potrebbe convincere l’Occidente ad iniziare un processo di allentamento delle sanzioni economiche contro il Paese.

Positive le prime reazioni internazionali. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton si è congratulata con il popolo della Birmania per aver partecipato al processo elettorale e ha invitato tutti a lavorare ancora per la trasparenza e ad altre riforme. Ottimista anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon sul percorso delle riforme in atto in Myanmar.

Sebbene il successo di Aung San Suu Kyi e del suo partito sia stato evidente, le elezioni suppletive non cambiano gli equilibri in seno al Parlamento, dominato ancora dal partito di governo l’Union Solidarity and Development Party (USDP) che mantiene la maggioranza assoluta dei seggi, pari a 212 parlamentari su 287 (in termini percentuali il NLD ha ottenuto il 6% del totale dei seggi in Parlamento contro il 79% del USDP, di cui il 25% di seggi è assegnato ai militari). Ciò ha contribuito ad attribuire alla vittoria del NLD un evidente significato politico, che proietta il partito d’opposizione e la sua leadership ad una prossima sfida: le elezioni generali del 2015, dove si assisterà al faccia a faccia fra governo sostenuto dall’USDP e l’opposizione democratica.

Aung San Suu Kyi: da “orchidea d’acciaio” del movimento per la democrazia in Myanmar a Premio Nobel per la Pace 1991

Il destino Aung San Suu Kyi era già scritto. Nata in una famiglia di attivisti – il padre, il generale Aung San, fu leader della lotta indipendentista birmana dalla dominazione inglese, la madre divenne una delle figure politiche di maggior rilievo del Paese – Suu Kyi si appassiona presto alla politica. Laureata ad Oxford in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia, la giovane parte per gli States e lavora presso le Nazioni Unite. Dopo l’assassinio del padre, Suu cresce in Inghilterra e sposa un professore universitario.

Quando nel 1988 il suo popolo insorge contro la giunta militare, Suu torna nel paese natale e inizia il suo lungo scontro diretto contro il potere assoluto dei generali.
Seguendo le orme di suo padre, fonda la Lega Nazionale per la Democrazia in risposta alla presa di potere di una nuova giunta militare. L’affronto della carismatica San Suu Kyi non piace e viene messa agli arresti domiciliari dai militari che la considerano una minaccia troppo pericolosa, soprattutto in seguito alla sua presa di posizione netta a favore dei tremila dimostranti per la democrazia, uccisi nell’agosto rivoluzionario del 1988.

Influenzata dal pensiero di Gandhi, San Suu Kyi fonda la sua politica sul concetto della nonviolenza come cardine di ogni movimento di dissenso divenendo lei stessa, proprio come insegnava il Mahatma, il cambiamento che voleva vedere avvenire nel mondo.
Il suo impegno per la democrazia e per i diritti umani all’interno del suo Paese e il riconoscimento come Rappresentante internazionale della non-violenza, l’hanno portata a vincere le elezioni nel 1990 e soprattutto il Premio Nobel per la Pace l’anno successivo. Liberata definitivamente a Rangoon nel novembre 2010 dopo sette anni agli arresti domiciliari (e 15 passati in detenzione) San Suu Kyi, oggi 66 anni, è riuscita a rivedere i suoi due figli solo dopo 10 anni e a tornare in Europa qualche settimana fa, il 14 giugno 2012, in occasione della conferenza annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro tenuta a Ginevra.

La figura di Aung San Suu Kyi, paladina stoica che per oltre vent’anni sacrifica la propria libertà personale e i propri affetti familiari per la “buona causa” (il regime le ha impedito di vedere i figli crescere e di assistere il marito prima di morire) è stata un’ammirevole fonte d’ispirazione per molti attivisti e artisti. Tanti sono infatti quelli che negli anni si sono mossi in favore della sua liberazione, tra i quali anche diversi musicisti e registi: l’ultimo lavoro del regista francese Luc Besson “The Lady”, con il patrocinio di Amnesty International, la rende di fatto un personaggio della cultura pop.

Timide prove di democrazia

Il tragitto di Aung San Suu Kyi durante il suo lungo tour elettorale era stato già il primo ingresso trionfale della leader dell’opposizione birmana nella scena politica del Myanmar che ancora oggi teme i generali al potere, o meglio la fazione dei falchi, ancora predominante e un’apertura troppo frettolosa alle istanze democratiche.
Questi primi mesi di libertà, celebrati tuttora da migliaia di sostenitori, non hanno ancora avuto un effetto generale su una popolazione che vive – come più volte ha detto la stessa Suu Kyi – “nella prigione della paura”.

Intanto il nuovo presidente, l’ex generale Thein Sein alla guida di un governo formalmente civile, ribattezzato il “Gorbaciov birmano”, negli ultimi mesi ha fatto aperture fino a poco tempo fa impensabili: la liberazione dei prigionieri politici; la proposta di abolizione della legge sulla censura che impone il controllo della stampa da parte del ministero dell’Informazione; la legalizzazione della Lega Nazionale per la Democrazia; i negoziati con le minoranze etniche e l’apertura ad Occidente per l’allentamento delle sanzioni economiche che sottrarrebbero il Paese all’abbraccio soffocante della Cina, il suo maggiore alleato regionale.

Soprattutto, il Presidente si è esposto contro alcuni esponenti del vecchio regime legati a Pechino, Aung Thaung e Myint Oo, chiedendone l’allontanamento, per le evidenti commistioni tra il loro ruolo pubblico e quello di referenti delle compagnie private e di Stato cinesi, da sempre coinvolte nelle infrastrutture dello Stato settentrionale di confine. Aung Thaung, il leader del partito dell’USDP, è stato l’ex ministro dell’Industria nel governo dei generali al tempo in cui Myint Oo era responsabile del Comitato per il commercio. Le tangenti delle grandi compagnie cinesi destinate ai vertici della giunta militare passavano attraverso di loro e non vi era alcun affare senza il vaglio del Comitato, vero tesoriere della Giunta.

Questo esonero, assieme a quello dell’ex capo dell’esercito Than Shwe alla guida dei tatmadaw – soldati specializzati in operazioni repressive e in funzione anti-indipendentista – rappresenta uno dei segnali più forti di svolta politica in Myanmar, sebbene rimangano ancora alcuni nodi importanti da sciogliere come: i 900 prigionieri politici ancora in cella, coinvolti, secondo il governo, in episodi di sabotaggio e violenza; la situazione dei ribelli Kachin, che continuano a scontrarsi con i soldati e a rifiutare le proposte di cessate-il-fuoco del governo e i 70 mila profughi, costretti ad abbandonare le proprie case e terre per rifugiarsi lontano dal conflitto.

A trattare con il Kachin indipendence army (KIA), presto sono stati chiamati due uomini del team di Thein Sein come Sai Maung Khum e soprattutto il ministro delle Ferrovie, Aung Min, il negoziatore famoso per aver concluso con successo altre 12 trattative con altrettanti eserciti separatisti, a cominciare dal cessate-il-fuoco con il gruppo Karen dopo una guerra durata 60 anni.

Nonostante le premesse, è difficile prevedere l’esito di questi negoziati con i ribelli di etnia cinese lungo i confini, come gli stessi Kachin, Wa e Chin che risentono della forte influenza di Pechino. I recenti segnali di distacco dalla storica dipendenza dall’economia cinese – come dimostra la cancellazione di una diga proprio in territorio Kachin – hanno notevolmente messo in allarme il Partito comunista cinese, che si sarebbe messo in contatto con il Partito “fratello” dei comunisti birmani, a sua volta in buoni rapporti con i leader delle etnie ribelli.

Per ora, il presidente Thein Sein è consapevole della necessità di coltivare buoni rapporti con la superpotenza cinese, onde evitare una reazione decisa e offensiva, visto che né la Cina, né tantomeno gli stessi generali al governo con i quali Aung San Suu Kyi deve ora convivere – sono soddisfatti di ritrovarsi la concorrenza americana a due passi da casa. La strategia della leader dell’opposizione, intanto, sembra quella di appoggiare l’alleggerimento graduale delle sanzioni aprendo ai paesi occidentali, trattando ogni richiesta con i generali in materia costituzionale, legislativa, educativa, amministrativa.

Conclusioni: tra rischi e opportunità

Le incognite del futuro rimangono vive, malgrado alcuni segnali positivi.
Un primo campanello d’allarme è rappresentato dalla grande difficoltà nel mettere in atto le riforme economiche (come la lotta alla corruzione, le battaglie per la legalità contro il commercio di droga) che permetterebbero una delicata transizione democratica e liberista.

La gran parte degli analisti danno infatti per scontato un futuro senza sanzioni, trovando il sostegno dell’Unione Europea e le perplessità americane. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia riguardo alle difficoltà di superare lo scoglio dei costi interni e delle carenti infrastrutture per le imprese, le quali sperano di affermarsi sul mercato birmano, e che l’alleggerimento delle sanzioni potrebbe non essere così rapido come richiesto dal Paese. Per ora infatti l’unica concreta concessione da parte americana – oltre alla riapertura dell’ambasciata a Rangoon – è stato un finanziamento di 30 milioni di dollari annui per aiuti umanitari.

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